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Difficile non rimanere incantati dalla suggestiva atmosfera che si è creata al Teatro San Carlo con la rappresentazione di Le Dragon bleu di Robert Lepage. Lo spettacolo è un sequel de La Trilogie des Dragons (Le Dragon vert, Le Dragon rouge e Le Dragon blanc), rappresentata già nel 1985, in cui Lepage  aveva analizzato storie di immigrati cinesi in Canada.
Tramite una serie di calibrate trovate sceniche,  Le Dragon bleu riprende così la storia di Pierre Lamontagne, un artista nativo del Quebec, che decide di trasferirsi definitivamente in Cina dove dirige una galleria nel cuore del Moganshan 50 di Shangai. La vita di Pierre, però, viene sconvolta dall’arrivo della sua compagna dell’Accademia di Belle Arti di Montrèal, che giunge a Shangai con la speranza di poter adottare un bambino, e dalla fotografa Xiao Ling, che scopre di essere incinta dell’uomo.

Attraverso la storia di Claire, Pierre e Xiao Ling, in realtà, Lepage riesce a intrecciare sentimenti individuali e mutazioni storiche: le tematiche sociali relative al fenomeno delle adozioni, la crisi della famiglia tradizionale, il capitalismo  e le contraddizioni del liberismo. Le tre storie, che sembrano a prima vista molto distanti fra loro, finiranno per convergere in un unico stato d’animo orientato verso la disperazione: per la dissoluzione dell’Io e la scoperta della solitudine che attanaglia i protagonisti.

Oltre a creare un’ indissolubile macchina narrativa, Lepage, con grande esperienza e con un pizzico di ironia, riesce a toccare le corde emotive degli spettatori. In alcuni momenti si ha quasi l’impressione di assistere ad uno spettacolo cinematografico.  L’uso delle luci risulta funzionale alla messa in scena.  L’impiego della tecnologia e gli innumerevoli cambiamenti di luogo e di atmosfera diventano i protagonisti dell’apparato scenico in grado di avvolgere gli spettatori in un’ambientazione magica. A ciò si aggiungono numerose invenzioni come l’illusione di movimento e il finto attraversamento di luoghi lontani. Di particolare rilevanza, a tal proposito, è la scena in cui i personaggi sono in bici e dietro di loro scorrono immagini in movimento di un paesaggio. La scenografia  è particolarmente complessa e varia: si passa dall’aeroporto alla casa di Pierre, dal bar con i tavolini girevoli alle strade di Shangai. Le varie scene si susseguono su più piani contemporaneamente.

Lepage parte dal presupposto che tutto lo spazio deve essere sfruttato per la rappresentazione ed anche i singoli oggetti vengo usati e riusati con diverse funzioni.
Ma le novità non finiscono qui. Un insolito finale, o forse dovremmo parlare di finali, tiene in bilico gli spettatori lasciando loro la facoltà di scegliere liberamente fra tre possibili happy end: il primo in cui Claire prende con sé il bambino e parte da sola; il secondo in cui il bambino rimane con Xiao Ling e Pierre in Cina e il terzo in cui il bambino viene affidato solo al padre mentre le due donne partono per il Canada.

Robert Lepage, che aveva inaugurato il Napoli Teatro Festival Italia con Lipsynch l’anno scorso,  si afferma ancora una volta come un grande innovatore, coraggioso, in grado di saper coniugare in maniera prodigiosa macchina narrativa, invenzioni sceniche, scenografia e illuminotecnica. L’obiettivo è quello di fondere i vari linguaggi dello spettacolo con l’integrazione del cinema e della video arte.  Un’artista poliedrico (attore, sceneggiatore, regista e direttore artistico) che, tra i tanti premi ricevuti, conta anche il premio UBU 2004/2005 come “Miglior spettacolo straniero in Italia” (The Busker’s Opera) non può non essere menzionato.
Infine la magistrale interpretazione degli attori Marie Michaud, Henry Chassè e Tai Wei Foo ha ammaliato letteralmente gli spettatori presenti in sala.

Giulia Esposito

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