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“Étude no. 1″ e  “Les Trous du Ciel”, una sfida all’offerta artistica della società contemporanea

Le potenzialità espressive del corpo umano, i suoni, le emozioni e le vibrazioni che un corpo in tensione può creare. La riscoperta e la rappresentazione della vita e delle abitudini più naturali degli Inuit (gruppo etnico dell’estremo nord dell’Alaska, del Canada e della Groenlandia) attraverso la danza, diretta espressione dell’interiorità umana e veicolo di comunicazione per un universo più volte dimenticato e trascurato dalle moderne “società del benessere”. Su questi temi, la coreografa canadese Marie Chouinard presenta nella cornice del Napoli Teatro Festival Italia due performance: il solo di danza Étude no. 1 e il balletto in un atto Les Trous du Ciel. Luogo: il Cortile Quadrato del Real Albergo dei Poveri.

Il lavoro fatto sui danzatori è evidente già in Étude no. 1 (prodotto nel 2001 dal Festival Danse Canada/Ottawa con il sostegno di ImPulsTanz/Vienna; 35min.), dove il corpo della danzatrice Lucie Mongrain segue le sensazioni e le emozioni che nascono e s’intrecciano su un rettangolo metallico blu. Due grandi biglie di ferro danno avvio ai movimenti rigorosi ed elastici di un corpo-strumentomusicale-automobile-segaamotore. Alla danza, disarticolata e armoniosa al tempo stesso, si alternano i silenzi e il respiro della ballerina canadese. La musica segue efficacemente i ritmi della danza e, in un gioco di suoni e luci, lo spettatore cade nella trappola di passi, sorrisi ed attese creata dalla danzatrice. A momenti, sembra davvero che la danzatrice si muova per via di un motore meccanico interiore o grazie ad un deus ex che ne tocchi le corde.

La Chouinard continua il suo lavoro di esplorazione delle potenzialità fisiche dell’uomo anche all’interno di Les Trous du Ciel, spettacolo del 1991, ricreato in una versione inedita (produzione: Centre National des Arts/Ottawa 2011; 60 min) e presentato a Napoli in debutto europeo. Dieci danzatori raffigurano un’antica tribù eschimese. Non con le parole, non con le superficialità dell’uomo contemporaneo, ma con movimenti spontanei e decisi, con urla e latrati, con respiri e corse, una musica fatta anche con i denti. È qui che “la femme sauvage du Quebec” (così è definita dalla critica la coreografa Marie Chouinard) mette in scena le fasi della vita degli Inuit. La pesca, la caccia, il corteggiamento sono momenti puri e ripetuti. L’istinto dell’uomo che vive nel freddo è qui rappresentato direttamente.
Un’immagine diretta e colorata, sbattuta in faccia allo spettatore medio, andato a teatro aspettandosi forse la didattica riproposizione in chiave moderna degli antichi riti di una tribù sconosciuta. Blu, rosso, bianco. I colori della tribù e le stagioni che passano. La luce e le stelle, evocate e rispettate, non solo nel titolo (buchi nel cielo è la maniera in cui gli eschimesi chiamano le stelle) accompagnano i movimenti coordinati e ritmici dei danzatori.

Peccato che quegli istinti e quelle passioni evocate debbano passare per il Real Albergo dei Poveri soltanto qualche volta l’anno e non ci sia più, in quella sede, la possibilità di accogliere le nuove ed esigenti tribù dell’era moderna. Come i cittadini di Parigi si spaventavano davanti all’enfant sauvage di Truffaut venuto dalla foresta, gli spettatori di Les Trous du ciel restano attoniti e non particolarmente entusiasti, spaventati davanti alla selvaggia e rude essenzialità dell’essere umano. Per evitare questo spavento è necessario ancora una volta ricordare, come ha fatto la Chouinard, l’esistenza di queste semplici tribù che vivono in armonia con la natura e non dimenticare l’immensa distanza che purtroppo ci separa da loro.

Luca Ciriello


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