La crudele tortura che si consuma ad Alto Fest
Marco Luciano colpisce il pubblico con i ricordi che evoca Di un altro amore io ora ti amerò
L’accusa per cui è stato arrestato è “delitto d’opinione”. Ed ora i suoi carcerieri lo torturano per avere informazioni, «basterebbero una ventina di nomi – e soprattutto, – dove cazzo sono le armi?». La conclusione di tale vicenda è già dichiarata: il prigioniero morirà dopo essere stato ripetutamente torturato.
Di un altro amore io ora ti amerò si apre infatti davanti al cadavere del giovane protagonista interpretato da Marco Luciano. Che tra violenti spasimi riprende vita, per raccontare al pubblico raccolto attorno al corpo, la propria storia. Amore e morte s’intrecciano nei ricordi a cui si è aggrappato di continuo, per non cedere alla disperazione per le violenze subite.
Coniugando l’interpretazione con una profonda fisicità, la performance tratta da Moha il folle Moha il saggio di Tahar Ben Jalloun, carica l’attore del duplice ruolo di vittima e carnefice. Il segno distintivo sta in una benda che, legata attorno al braccio, segna la figura dell’aguzzino, narratore a tratti degli eventi. Stretta sugli occhi, caratterizza le punizioni che Luciano infligge a sé stesso, a quel prigioniero schiaffeggiato dalla sua mano gommata, che riecheggia sulla scena.
Anche in questo caso siamo sul ballatoio del condominio n. 19 di via Mezzocannone, per Alto Fest.
Lo spettacolo procede per colpi agli spettatori, alternati tra cuore e stomaco. Il messaggio che i ricordi del detenuto vogliono creare, aspira ad essere universalmente umano: «perché il sole si accanisce su di noi? E perché la luna non ci protegge? Perché il mare non restituisce i nostri corpi?» ci chiede adirato il ragazzo – ormai irrimediabilmente libero. Con la stessa libertà mentale che ha coltivato in vita e ha cura di preservare durante le sevizie, riflette quindi sulla comune condizione umana di precarietà e follia.
Il contenuto principale è però di stampo politico. Per ragioni politiche il protagonista, a soli 27 anni, viene arrestato e ucciso, per le stesse ragioni si pone nuovamente il problema della libertà: quella di individuo, parte di una società totalizzante e violenta. Di conseguenza la questione si stacca dallo specifico riferimento alle dittature, proprio del testo originale, per assumere nuovamente valenza globale: prima di abbandonare gli spettatori ai loro pensieri sbattendo la porta che dà sul ballatoio dove si è esibito, il personaggio lancia la sua accusa di fatti sul pubblico, complice e schiavo dei sistemi del potere, che governano le nostre esistenze.
«I paesi vanno alla deriva» si dice, come se seguissero il corso delle acque che si spartiscono. L’acqua è l’elemento chiave dello spettacolo: «l’acqua è politica!» oltre che – o quindi – vita. Bagnandosi il petto grazie al secchio disposto al suo fianco, il protagonista si prepara a riprendere coscienza, e in una sorta di arbitrario battesimo, tocca con qualche goccia alcuni degli spettatori prima di cominciare la confessione.
Mescolata con sale grosso, piscio e sputi, sarà una parte della tortura che subirà, pure in grado di lenire la sete.
E come i paesi, anche i propri ricordi derivano, partendo dall’infanzia, mentre ancora legato alla sedia si dice che non lo uccideranno. Si ricrederà, fino a che la memoria si volge a sua figlia, che gli permette di sorridere anche mentre lo trasportano bendato chissà dove. Che gli permette di cadere e infine di morire, quando ripensa che è morta: di ricordi belli non ne rimangono più.
Eduardo Di Pietro