Passioni e sentimenti esplodono tra le bombe di Ugo Chiti
“Voi ricordate i morti
ma ricordateli vivi”…
La dedica introduttiva ad Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso con sette proiettili probabilmente dalla camorra, perché «nel corso della sua vita ha sempre detto di no e ha avuto il coraggio delle sue azioni», presenta subito al pubblico i temi fondanti di Quattro bombe in tasca. Infatti lo spettacolo con la regia di Ciro Sabatino, delinea i tratti caratteristici di un’umanità sfaccettata e generosa, esemplare e piena di contraddizioni: come quella che s’incontra in chiunque si batta per degli ideali, senza scendere a compromessi. Come quella della Resistenza e, nel caso del testo di Chiti cui la messinscena omonima si riferisce, di un gruppo di partigiani nascosti sui monti tra la Toscana e l’Emilia Romagna.
L’importanza della memoria in generale e degli eventi storici che contribuirono a condurre l’Italia fuori dal pantano del regime fascista in particolare, è ribadita dai sentimenti di fiducia, coraggio e abnegazione dei personaggi rappresentati. Da un lato pure deboli e, come dicevamo, umani, dall’altro mitizzati inevitabilmente dalla narrazione.
Accade quindi che i ricordi prendano la forma di ombre che emergono lentamente nell’oscurità dell’Orto Botanico, fino all’apparizione delle sei attrici distribuite sulla scena: in un periodo posteriore a quello dei fatti menzionati, un’ispirata Marina Cavaliere evoca il Biondo che, imbarazzato e confuso, saluta Silvana, la donna dell’amico Fausto, prima che questa si sposi. Si rivolge continuamente a Tizzo, un partigiano morto a Firenze nel 1944. Il racconto si sposta quindi a quegli anni di attese snervanti, imboscate e tradimenti, riportando le circostanze delle morti della maggior parte dei suoi compagni combattenti, quando Fausto era stato l’ultimo a sacrificarsi, facendo esplodere le 4 bombe che teneva nella giacca. Con il sorriso sulle labbra («aveva appena fatto l’amore»), uccise due dei soldati tedeschi che l’avevano arrestato: «60 anni sono pochi già per un uomo solo, se poi facciamo 60 anni in tre» morire ha ancora meno senso. O forse ne ha ancora di più.
Per ottenere che gli occupanti acconsentissero a far seppellire i resti del partigiano lasciati per giorni in piazza, come monito per gli italiani spavaldi, la stessa Silvana si era concessa volontariamente ai desideri degli ufficiali tedeschi.
Si dipanano così le vite dei giovani protagonisti, tra episodi eroici come questo e vicende ignobili, come la vendetta dei partigiani sul professore collaborazionista (interpretato da Elisabetta Bevilacqua, convincente in tutti i ruoli che propone) che, assassinato da Fausto e compagni, trascina all’animalità i suoi carnefici.
La storia procede per balzi, ogni sviluppo degli eventi è intervallato da un approfondimento, un excursus che prepara a saltare all’evento successivo. Per cui prima del rastrellamento dei soldati sui monti e dell’allerta ai partigiani nascosti, sono stati illustrati al pubblico i trascorsi di Bomba e della sua famiglia sterminata. O per esempio, al salvataggio del febbricitante Biondo, scampato alle truppe tra i boschi, segue l’incontro tra Tizzo e Olindo Bove: l’uno catturato, l’altro un repubblichino ex-compagno di scuola, con tutti gli sguardi all’indietro che ne conseguono. Allo stesso modo, ci si perde poi nelle origini della torturatrice detta Lady Shangai, per un continuo andirivieni tra passato e trapassato remoto. Agevolata dagli interventi della narratrice, la trama si sviluppa perciò con una certa calma, adeguata ai bisogni della memoria, a cui si adattano anche le interpretazioni di talune attrici.
La celebrazione nostalgica e reiterata del comunismo non intacca, o anzi contribuisce, al quadro vivace che la messinscena realizza: una rassegna di sentimenti ed esistenze che condividono un tratto di storia, accomunati da desideri di vita e libertà. Pina Di Gennaro, immobile per tutto lo spettacolo eppure fortemente espressiva, è un elemento peculiare di questa immagine vitalistica. Che resta impressa profondamente negli spettatori, ripensando a quei personaggi (quelle persone) che, seppure morti, esistettero con più forza di tanti di noi.
Eduardo Di Pietro