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All’Orto Botanico la storia di Luisa Sanfelice, personaggio chiave della rivoluzione partenopea.

Un palco illuminato emula il tricolore, una proiettore illumina una finestra nel cortile, alludendo al dipinto di Gioacchino Toma La Sanfelice in carcere del 1874, riprendendola mentre è intenta a cucire un vestitino per il neonato che non vedrà mai; nello stesso tempo, nitriti e zoccoli di cavalli accolgono il pubblico in platea. Questi, i primi elementi scenici tangibili prima di assistere a L’incoronata prodotto da Tavole Da palcoscenico, interessante monologo recitato da Patrizia Monti per la regia di Iolanda Salvato.

È la notte tra il 9 e il 10 Settembre a Piazza Carità a Napoli, e il fantasma di Luisa Sanfelice, assieme a sua madre Camilla Salinero, torna alla ribalta per vendicare i soprusi subiti dal famelico e crudele Ferdinando di Borbone. L’incoronata è un compendio di memorie, sensazioni, esperienze vissute da un personaggio storico controverso e ancora discusso, decisivo per la storia dell’Italia. Appartenuta alla nobiltà napoletana, Luisa Sanfelice sposò suo cugino Andrea che fu costretto a fuggire per i debiti di gioco. La sua notorietà, che la elevò a rango di madre della patria, fu data nel momento in cui denunciò una congiura controrivoluzionaria organizzata dai banchieri Baccher per riportare la monarchia borbonica. Per metterla in salvo dalle conseguenze della congiura, Gerardo Baccher, uno dei banchieri follemente innamorato di lei, le consegnò un salvacondotto che a sua volta Luisa donò a Ferdinando Ferri, uomo da lei tanto amato che, venuto a conoscenza della trama, la denunciò. Mal tollerata da Ferdinando di Borbone, Luisa fu condannata a morte, ma la sua sentenza fu più volte rimandata in quanto si fingeva incinta. E mentre molti collaboratori della Repubblica Napoletana come Vincenzo Cuoco e Ferdinando Ferri ottenevano solamente l’esilio, Luisa fu condannata a pagare con la sua stessa vita le idee di libertà e di uguaglianza.

Sufficientemente energica, Patrizia Monti riesce ad inglobare il pubblico in una marea di pulsioni carnali e sensuali che si addicono notevolmente ad un personaggio storico così vigoroso e ricco di sfumature psicologiche. La stessa drammaturgia di Emanuele Tirelli è carica di risvolti letterari, sfruttando un linguaggio autentico e dialettale che esprime con intensità drammatica il grido sofferto e viscerale di Luisa che invoca vendetta, non trascurando la sua volontà che trasuda nobili valori. È un dramma lirico e critico, che si sofferma benissimo sugli errori della Repubblica Napoletana, durante la quale gli intellettuali e il popolo parlavano rispettivamente due lingue diverse: l’italiano e il dialetto; un dramma che esalta le potenzialità nascoste di una Napoli sopita e violenta come il Vesuvio, l’analisi di una città pigra e indolente ma che “tene ‘na forza, che quando vuole nisciuno ‘a può fermà. Però nun tene costanza”, e quando si sveglia, scrive pagine di storia.

A coronare, invece, questo pezzo di storia realizzato da un’abile Iolanda Salvato, contribuiscono le musiche di Igor De Vita, tra il classico e il folkloristico e i costumi tra l’evanescente e il simbolico di Adelia Apostolico e l’assistente Gloriana Manfra. Il disegno luci è di Marco Zara mentre l’aiuto regia e l’assistente alla regia sono rispettivamente Veronica Veneruso e Antonio Atte. Un racconto, quello di Luisa Sanfelice, che chiede di vivere e di essere ricordato per mostrare ai contemporanei il vero senso della lotta e del cambiamento contro una tirannia ingiustificata.

Marco Sgamato

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