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Stancamente mi trascino sul foglio, per riprendere il filo di un discorso interrotto in una sera d’estate, prima di una vacanza assenza, prima della partenza per una breve anestetizzazione delle emozioni, delusioni, amarezze, raccolte durante un inverno di lotta e di ribellione senza esito alcuno.

Mi risveglio, o forse no, tra le ruote di un TIR guidato da Tremonti, che mi stritola con una, due, tre, quattro manovre sbagliate, cieche e ciniche, che accompagnano il futuro di questo Paese al gabinetto e tirano il discarico sulle speranze di lavoro, diritto, dignità, cultura, progresso civile, etico, sociale, degli italiani.

Un Napolitano partenopeo, mi dice in tv, che è il momento di cambiare vita, forse si riferisce al trapasso finale, visto che per cambiare un tenore di vita, ci vuole il tenore di vita, che, allo stato delle cose, esiste esclusivamente per il 10% degli italiani, un 10%  di cui non faccio parte.

Incontro ragazzi e adulti che partono con le valigie, che pure senza cartone, sono impregnate di vergogna e indignazione. Partire per far che? Per andare dove? Per migliorare cosa?

Si parte per sperare e perché proprio non si può più rimanere, non si può più restare in attesa che il bivacco dei lanzichenecchi al potere, spenga i suoi fuochi ed essi si ritirino con le pance e le tasche piene di quattrini e di pasta.

L’incubo continua e sullo yacht del dandy pigliatutto, tra “maschere” e sorrisi pagliacci, viene premiato il “servo di scena”, il guitto cortigiano, che sorride dal palchetto e sogna un contratto al sorbetto, per una, due, tre settimane, facciamo un anno va’, a casa del ricco padrone di turno. Che tristezza!

Riapro gli occhi ancora abbagliati dal sole di Puglia e vado a fare la spesa per sopravvivere alla canicola e alle stagioni teatrali dei big duplicati nei vari teatri, come le figurine dei calciatori, anche se i doppioni, si sa, non valgono quanto i giocatori rari, quelli introvabili. Mi rendo conto che entrare in salumeria è come andare a comprare il primo anello di fidanzamento, spendi molto e compri quasi nulla. Euro fa rima con neuro, ne coniuga perfettamente il senso e la patologia. Neurosi o eurosi collettiva, fa lo stesso, i sintomi convergono nelle tasche vuote dei patrioti dell’Europa Unita, la febbre sale contagiosa e infetta i governi, le banche, muore la crescita del Paese, muore l’articolo 18, muore il diritto al lavoro, muore il capitale, ucciso dai capitalisti.  Santo Trichet benedice la manovra, fa il miracolo della moltiplicazione del consenso e il puttaniere può continuare la sua missione di benefattore di puttane, magnacci, mafiosi, intrallazzatori, truffatori in difficoltà.

Dico a quell’amico in partenza con le valigie della speranza, che Napolitano ha detto che bisogna cambiare vita, abituarci a convivere con la crisi, cerco di convincerlo che la crisi è ovunque, che partire è un po’ fuggire dalla lotta, ma lui mi risponde che il Presidente vive al Quirinale, è anzianotto e le sue aspettative di vita sono alquanto ridotte. Quanto alla fuga dalla lotta, mi dice che forse sì, forse è vero, ma se il massimo del lavoro sul mercato è un call center a 300 euro al mese sempre che  vendi, la lotta è già persa da tempo.

Gli grido mentre sale sul treno: “e il teatro?”. Mi risponde qualcosa che mi pare finisca con culo.

Mentre torno verso casa mi dico che ha sbagliato a partire, che mo’ c’è De Magistris a Napoli, che possiamo farcela.

A casa, mentre apro una scatoletta di tonno, sento una voce femminile che ripete una nenia malefica, un mantra della menzogna: “abbiamo salvato il Festival, lo abbiamo rilanciato”, mi giro e vedo lui, il mio eroe, quello che ha scassato tutto, è lì in prima fila, mentre la voce femminile squittisce, tra Masanielli veri e finti, sputtanate brechtiane e vampiri in salsa dandy.

Spengo il tv, corro al telefono, chiamo il mio amico sul treno e gli chiedo in preda all’ansia: “non ci capisco più niente, sono confuso, sai qualcosa che non so, hai avuto una soffiata, una delazione, un’intercettazione, cosa?”.

Stavolta percepisco chiaramente la sua disarmante risposta: ”ma iate a ffa’ nculo!!”.

Carlo Cerciello

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