Le “ferite” della Napoli degli anni ’50 a Benevento Città Spettacolo
Il romanzo di La Capria debutta a teatro per raccontare un tempo che mai più ritornerà.
Duole l’orecchio a Massimo. Forse gli è entrata troppa acqua quando ha fatto l’immersione; o forse sono le chiacchiere fatue che lo circondano ad infastidirlo, quelle dei suoi amici del Circolo Nautico, metafora della condizione della borghesia napoletana degli anni ’50, che dedita alle frivolezze, alle donne e alla bella vita inesorabile, però, si avvia al declino.
Tratto dall’omonimo romanzo di Raffaele La Capria (vincitore del Premio Strega nel 1961), Ferito a Morte, diretto da Claudio Di Palma e prodotto da Teatro Stabile di Napoli e Vesuvioteatro in collaborazione con Napoli Teatro Festival Italia, è andato in scena per la prima volta ieri sera al Teatro Comunale di Benevento, arricchendo di una ulteriore “prima nazionale” il cartellone di Città Spettacolo, nella sua penultima giornata di programmazione.
È così, allora, che la storia di Massimo De Luca – interpretato da Mariano Rigillo che restituisce al personaggio l’esatta profondità che lo connota – ed i suoi “confusi quasi pensieri” prendono consistenza e, dalle pagine di un libro, si trasferiscono sulle tavole di un palcoscenico, in una stanza costruita in bilico, come in bilico è l’esistenza di chi la abita ed intanto ricorda in un continuo ondeggiare tra presente e passato; ripercorrendo luoghi e situazioni che nel tempo, trascorso e vissuto, si sono popolati di persone, come “l’eccezionale” Sasà e il comunista Gaetano, gli amici, Ninì, il fratello minore, Carla, la bellissima donna amata e ora perduta, ma anche dei pesci delle acque del mare di Posillipo. Ed è certamente proprio la rappresentazione della caccia alla spigola condotta da Massimo e fatta rivivere con vividezza al pubblico attraverso i ricordi del protagonista, il momento più alto ed intenso dello spettacolo: immersi in mare, in un clima di calma solo apparente, col fucile pronto a colpire, la lotta tra l’uomo e l’animale è estenuante, crudele e, come mai, dà il senso dell’impazienza, dell’indomita ansia che a stento si trattiene ad anticipazione del cambiamento che, dopo la guerra, sta arrivando ed inizia, inesorabile, ad avvertirsi.
Tutto infatti sta mutando: la cementificazione ha distrutto i fondali marini (“sott’acqua un deserto, ogni forma di vita e avventura distrutta, nemmeno un saragotto degno di una sommozzata”), il bradisismo ha danneggiato il fastoso Palazzo Medina, l’illusione di una ricchezza possibile e di facile ottenimento anima inetti giovani che occupano i tavolini dei bar del centro quasi a voler tristemente ripercorrere, senza riuscirci, ciò che è stato. Massimo di tutto questo ne è uno osservatore privilegiato avendo della realtà che gli si presenta dinanzi agli occhi, una conoscenza dall’interno e, proprio per questo motivo, maggiore è il senso di inadeguatezza che avverte e più profonde le ferite che lo attraversano (“Viviamo in una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme”) tanto da decidere, alla fine, assecondando una volontà maturata gradualmente, di lasciare Napoli.
Ma ecco che la consapevolezza di aver per sempre perduto il tempo trascorso e non vissuto e che non è più possibile recuperare, determina nuova insoddisfazione e l’impossibilità di trovare una definitiva via d’uscita.
Al termine della rappresentazione, applausi calorosi da parte del numeroso pubblico hanno accolto l’intero cast composto anche da Elena Cepollaro, Andrea De Goyzueta, Antonio Marfella e Alfonso Postiglione.
Ileana Bonadies