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QuartaParete intervista Luigi Imperato autore, regista e co-fondatore della compagnia Teatro Di Legno.


Luigi Imperato

Nato nel 1980, è uno dei due registi e drammaturghi della compagnia Teatro di Legno. Ha conseguito diversi riconoscimenti e premi per l’attività teatrale. Nel 2010 è tra i fondatori del collettivo corpo 10, gruppo di scrittura a più mani.
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Come si è avvicinato al mondo del teatro? C’è stato uno spettacolo che ti ha portato a dire “voglio lavorare in teatro”?

Ho iniziato la mia attività dopo l’università. Prima ero più interessato alla scrittura, alla letteratura e al cinema. Poi all’università ho seguito un corso sul teatro, in particolare su Eugenio Barba, e da lì ho iniziato ad interessarmi ad un teatro di ricerca per poi proseguire con un percorso di studi sul teatro-danza, mimo e poi teatro.

Nei suoi spettacoli lavora molto sull’immagine, ci può spiegare il perché di questa scelta?

Per me e per Silvana Pirone, la regista e drammaturga con cui collaboro per Teatro Di Legno, lo spettacolo deve coinvolgere lo spettatore in vari modi e quindi ci deve essere un filo di tensione e comunicazione con lo spettatore, capace di attirarlo in vari modi; uno di questi modi è l’immagine. L’immagine però non è mai fine a sé stessa ma è soprattutto legata alla drammaturgia. Il nostro è sì un teatro d’immagine ma soprattutto un teatro d’attore.

Cosa significa per un giovane fare teatro in questa città, nella terra di Ruccello?

Noi ci sentiamo molto legati a Ruccello, lo consideriamo un nostro maestro anche dal punto di vista drammaturgico. Siamo molto legati alla sua scrittura e ricerchiamo continui echi della sua scrittura nelle nostre opere. Per quanto riguarda il “vivere da giovani” questa città è un continuo sacrificio, una continua lotta. Ci si deve dividere in mille parti per sopravvivere e non sono poche le tentazioni a fuggire sia dalla città che dal teatro.

Come riesce una compagnia giovane a mantenersi economicamente?

Facciamo molte altre cose. Alcuni di noi fanno laboratori, altri teatro di strada o anche altre attività che non hanno nulla a che fare col teatro. Se con la nostra attività teatrale non andiamo in rosso è già un miracolo poiché tutti i nostri lavori sono autoprodotti e quindi questo significa investimento anche da parte degli attori che non vengono pagati per le prove. Poi si cerca di recuperare con le repliche…

Perché il nome Teatro Di Legno?

Prima di tutto perché per noi era un’immagine, un qualcosa che ci sembrava potesse lasciare, agli eventuali spettatori, la possibilità di immaginarsi il perché… in realtà i motivi sono molteplici, la prima scelta era legata soprattutto al fatto che ci piace molto il legno come materiale scenico. Viene usato molto da noi come elemento scenografico ma non in modo sterile, spesso cerchiamo di farlo “animare” per farlo diventare “attore in scena”; poi c’è un parallelismo tra l’artigianalità del legno e l’artigianalità del lavoro teatrale, per noi il teatro è prima di tutto artigianato, è fare. Un’altra metafora che ci piace è vedere il nostro teatro come un teatro che abbia la possibilità di trasformarsi sia grazie a noi come agenti attivi sia grazie al pubblico come agenti passivi, un po’ come il legno che viene trasformato attivamente dall’uomo e passivamente da agenti esterni come i tarli o l’usura. Infine il legno è fonte di calore e il calore, il fuoco della passione è una delle cose su cui lavoriamo.

Dopo aver vinto il premio mezzogiorno ed essere stati compagnia affermata, cosa consiglia ai giovani che voglio intraprendere questa esperienza e che vivono il dubbio tra la formazione accademica e quella laboratoriale?

Secondo me ogni strada porta a qualcosa, noi non abbiamo frequentato l’accademia ma ci siamo formati con laboratori e con un corso di mimo con Michele Monetta. Però ci sono anche molte compagnie con formazione accademica che hanno raggiunto ottimi risultati. Le strade sono tante, l’importante è andare fino in fondo e capire quali sono le proprie necessità. Questo è l’unico consiglio che mi sento di dare.

Grotowski diceva: “il teatro non è indispensabile, serve ad attraversare le frontiere tra te e me”. Lei cosa ne pensa?

Sì, per noi il teatro è mezzo di comunicazione, altrimenti non avrebbe senso. Non ci interessa l’evento spettacolare in sé, per noi è importante creare un filo di comunicazione col pubblico che può essere attraversato da ogni tipo di messaggio: un’indagine antropologica, cioè cercare di capire l’uomo, o magari un discorso civico che tende ad esprimere un messaggio. Noi ci muoviamo sulla prima linea, che consiste nel guardare l’altro negli occhi e comunicargli l’umanità che è percorsa dall’una e dall’altra parte. Il nostro è un teatro di emozioni, ad esempio ne La nave dei folli si tratta il tema dell’abbandono, dell’esilio del diverso. A noi non interessa tanto affrontare il tema della follia ma guardare quelle persone negli occhi, affrontare la cosa dal punto di vista umano.

Cos’è per lei la quarta parete?

È un qualcosa assolutamente da sfondare. I nostri spettacoli lo fanno spesso per incontrare gli spettatori, a volte proprio fisicamente. Proprio ne La nave dei folli c’è una scena in cui gli attori vanno in platea a coinvolgere il pubblico, ad affrontarli. Inoltre nei nostri spettacoli c’è sempre un misto tra mimesi cioè dialoghi e narrazione, e narrando è come se ti metti a fianco dello spettatore e non è isolato nelle 4 pareti del palco. 

Progetti futuri.

Come ti dicevo siamo sempre indecisi sul continuare o meno ma c’è anche una grande voglia di andare avanti e sfidare le difficoltà, quindi cercheremo di portare avanti i progetti a cui stiamo lavorando… alcuni iniziati l’anno scorso, per esempio lo spettacolo Erba Amara che parla del vignettista Naji Al Ali, poi uno spettacolo, sempre iniziato a scrivere l’anno scorso: Devot’ che cercheremo di portare a termine quest’anno e altri lavori nuovi che abbiamo messo in cantiere. In particolare sta nascendo un progetto di monologhi di cui però è ancora presto per parlarne perché siamo proprio all’origine.

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