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Lo spettacolo di Alessandra Asuni mette fine a “Stazioni d’Emergenza” con una denuncia serrata sulle condizioni dei detenuti in Italia.

L’impegno e la denuncia sono le due istanze alla base de Il salto, la trattazione teatrale di un problema mai risolto, profondamente italiano. Subito dichiarate da una registrazione audio trasmessa in apertura di spettacolo, l’ultimo testo in scena per “Stazioni d’Emergenza” a Galleria Toledo ci introduce alla tematica attraverso tre sagome in ombra, sedute di spalle al pubblico, con le gambe incrociate. I tre sono detenuti che in poco tempo si rivelano al guinzaglio di una donna sbrindellata e scarna, che li trascina a sé lasciandoli latrare e correre come cani.

L’immagine ricorda Pozzo con il suo servo Lucky in Aspettando Godot, ma lei rivolge agli spettatori gli occhi scavati sulle guance sporche, assieme al monologo dell’essere o non essere, quello dove Amleto si chiede se sia possibile opporsi o meno all’oltraggiosa fortuna. La donna, per quanto malmessa, si erge su di una scala di legno (una sorta di torretta di guardia o di podio) e rappresenta la Giustizia che, insicura e appannata, si esprime in un linguaggio apparentemente incontaminato, ispirato a una natura primordiale.
I tre detenuti interpretati da Fabio Rossi, Andrea de Goyzueta e Antonio Tufano parlano sotto l’influenza di tale linguaggio, per raccontare le proprie storie, per incontrare i familiari a colloquio, per tirare avanti nella routine carceraria. Dominati dalla Giustizia impersonata da Elena Cepollaro, sono uomini svuotati e annichiliti, il cui unico salto può essere solo nel sogno: un tossicodipendente stranito di fronte al proprio io, vittima delle circostanze e della propria debolezza, un musulmano cieco che ha affrontato il viaggio con una meta illegale, un giovane che subisce le conseguenze della sua opposizione al sistema.

I tre protagonisti hanno in comune con la Giustizia, non solo la condivisione di un’esistenza aliena sulla zattera, location ondeggiante della vicenda, ma soprattutto un vero e proprio scollamento dalla realtà. Consapevole della propria inadeguatezza, la Giustizia per prima dimostra la propria sospensione in una dimensione senza tempo e senza spazio: nella sua finalità correttiva dei comportamenti individuali, accentua l’azione violenta (la “bie” greca) della coericizione e rappresenta solo apparentemente colei che indica e che indirizza. In realtà la sua mente è logorata da innumerevoli dubbi sul senso della punizione, della detenzione, sulla vita e sulla morte.
Come Fabio Rossi ci spiega, il suo «più che un personaggio, è un’essenza. Mi colpì molto un’intervista di un ex-detenuto il quale raccontava che quando si è in carcere gli arti si indolenziscono, la vista e l’udito si abbassano proprio perché sei costretto a vivere chiuso tra quattro mura e così i movimenti non sono più naturali, il colore predominante intorno a te è il grigio scuro, i suoni e gli odori sono sempre gli stessi, la tua sensibilità è alterata in una dimensione di totale svuotamento». Questa è la direzione in cui l’attore ha lavorato.

Lo spettacolo si sviluppa da un percorso molto elaborato. Ancora Fabio ce lo racconta: «È nato partendo dall’esigenza di portare il teatro fuori dal teatro e di farlo vivere in un luogo altro e simbolico come lo Spazio di Massa Occupato della facoltà di Lettere e Filosofia della Federico II. Un anno fa facemmo una replica del precedente lavoro con Alessandra Asuni, Mamma compie 70 anni, e successivamente un laboratorio teatrale su un nuovo progetto di Alessandra, che sarebbe poi diventato Il salto e che aveva come tematica la detenzione. Da questo laboratorio è poi uscito uno degli attori dello spettacolo che è Antonio Tufano. In un secondo momento è intervenuto Fabio Rocco Oliva con il suo lavoro drammaturgico su una struttura già definita da Alessandra».
L’attore prosegue richiamando quindi la questione fondante l’intera messinscena, la situazione in cui versano le carceri italiane: «Dostoevskij affermava che “il livello di civiltà di un paese si misura osservando le condizioni delle sue carceri”: partendo da questa riflessione risulta evidente che il carcere diventa il luogo dove poter osservare l’ingranaggio difettoso della contemporaneità. Un luogo che dovrebbe essere di “ricostruzione” dell’individuo e che invece diventa di “distruzione”».

Un problema fondamentale, che si presenta in un’altra veste teatrale dopo la recente conclusione della VII rassegna “Il carcere possibile” al San Ferdinando. La popolazione detenuta in Italia è cresciuta negli ultimi dieci anni dell’80%, a fronte di spazi e strutture rimasti sostanzialmente invariati, e quindi sempre più invivibili. I Radicali italiani in particolare ne hanno fatto un punto fermo da denuncicare: carenza di personale, mancanza di spazi di socialità, aree verdi e strutture sportive. Come a dire che, riguardo alle condizioni delle carceri e al nostro livello di civiltà, la misura è stata, ancora un volta, persa.

Giulia Esposito

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