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Le pagine di Oblio si trasformano in monologo per interrogarsi sull’esistenza umana ed i suoi paradossi.

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Tra il tempo finito della vita e quello infinito della morte c’è un istante. E in quell’istante si racchiude e fluisce tutto ciò che siamo stati e siamo diventati, tutto quell’immenso universo che ci portiamo dentro senza riduzioni né limitazioni e che durante la nostra vita è stato forzato perché potesse passare attraverso il piccolissimo buco della serratura della stanza in cui è stato compresso, giungendo così agli altri solo in minima parte e distorto.

«Pensaci un attimo: e se tutti i mondi infinitamente densi e mutevoli dentro di te ogni istante della tua vita a questo punto si rivelassero in qualche modo completamente aperti ed esprimibili dopo, dopo la morte di quello che ritieni essere te, e se dopo questo momento ciascun istante fosse in sé un mare o uno spazio o un tratto di tempo infinito in cui esprimerlo o comunicarlo, senza neanche il bisogno di una lingua organizzata, e ti bastasse come si suol dire aprire la porta e trovarti nella stanza di chiunque altro in tutte le tue multiformi forme e idee e sfaccettature? […]» ( D. Foster Wallace, Caro vecchio neon, in Id., Oblio, Torino, Einaudi, 2004)

E solo un istante sembra durare Caro Vecchio Neon – tale è l’intensità di questo breve ma denso racconto tratto dalla raccolta Oblio –, un istante ricolmo dei discorsi concitati e apparentemente disordinati di Neal, il protagonista, frutto del genio creativo di David Foster Wallace, lo scrittore statunitense che mai come in questo lavoro, vero emblema della sua cifra stilistica e narrativa, mescola sapientemente bassezza e profondità, comico e tragico, utilizzando la sua sottile ironia come un grimaldello per scardinare certezze e luoghi comuni, ponendoci così di fronte agli interrogativi fondamentali dell’esistenza umana e del suo passaggio terreno:

«[…] il significato dell’espressione la mia vita non si avvicina neanche lontanamente a quello che crediamo di dire quando diciamo la mia vita. Le parole e il tempo cronologico creano tutti questi equivoci assoluti su quello che succede per davvero a livello elementare. Eppure al tempo stesso la lingua è tutto ciò che abbiamo per cercare di capirlo e per cercare di instaurare qualcosa di più vasto o più significativo e vero con gli altri, il che è un altro paradosso».

Non è facile dar corpo e sostanza ad un testo così filosoficamente denso di riflessioni, mettere in scena tutto ciò che avviene nella mente di una persona in quel preciso istante evitando che lo spettatore si perda in questo vasto oceano. Eppure la sapiente regia di Simone Petrella e la lodevole interpretazione di Giovanni Ludeno ci sono senz’altro riusciti. Ed è stato come nuotare nella mente di Neal, nella ricostruzione del percorso che lo ha condotto ad essere un impostore, immergendosi nei suoi ricordi e nei suoi dialoghi con l’analista per poi riemergere in superficie, in una sorta di istante dilatato, richiamati alla realtà da un improvviso rintocco di orologio.

«Io sono un impostore», questo l’incipit del racconto, la lucida presa di coscienza di quello che si è veramente, e l’autenticità è l’obiettivo della ricerca spasmodica che Neal, e lo spettatore con lui, intraprendono, dal momento che il corollario del paradosso dell’impostore recita che «vuoi raggirare chiunque incontri eppure al tempo stesso in qualche modo speri sempre di imbatterti in qualcuno che non si lasci raggirare». In fondo siamo tutti impostori, indossiamo, come direbbe Pirandello, centomila maschere, e alimentiamo l’immagine che ogni altra persona costruisce di noi mentendo a noi stessi, per il solo gusto di piacere ed essere in qualche modo accettati e riconosciuti.

«Che le cose stanno così. Che è questo a fare spazio per l’universo dentro di te, tutti gli infiniti frattali di collegamento ripiegati su se stessi e le armonie di voci diverse, le infinità che non puoi mai mostrare a un’altra anima. E tu pensi che faccia di te un impostore, quella minima frazione che agli altri è dato scorgere? Certo, sei un impostore, certo, quello che gli altri vedono non sei mai tu. E tu certo lo sai, e tu certo cercherai di manovrare quella parte che vedono se sai che è solo una parte. Chi non lo farebbe? Si chiama libero arbitrio […]».

Ma è davvero libero arbitrio? Nascondere i nostri infiniti mondi interiori è davvero la cosa da fare? Forse basterebbe solo amarsi un po’ di più per non dover cedere alla menzogna di se stessi.

Caro Vecchio Neon è da vedere, da leggere e da meditare profondamente.

«Non una parola di più».

Irene Bonadies

(consulenza letteraria di Armando Mascolo)

 

Nuovo Teatro Nuovo – Via Montecalvario 16, Napoli

Repliche venerdì 2 e sabato 3 alle 20:30, domenica 4 alle 18:00

Info:  + 39 081 406062 –  info@nuovoteatronuovo.it

 

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