Enigma Kafkiano
De Fusco, Brook, Latella, Wilson: Quale dei quattro è un falso storico?
Compare nel BURC della Regione Campania intitolato “Fondazione Campania dei Festival Verso il Forum 2011-2012”, l’affermazione che i quattro succitati “grandi registi”, si appresterebbero ad essere prodotti e distribuiti proprio dalla Fondazione Campania dei Festival, attraverso l’utilizzazione di ben 11 milioni euro dei Fondi Por Europei destinati al rilancio e la valorizzazione delle Aree Sottosviluppate del Mezzogiorno d’Italia, allestendo spettacoli e non ben precisati “ateliers” culturali, nel “regno” di Napoli, della sovrana Caterina Miraglia, Assessore alla Cultura della Regione Campania, ma pure Presidente della Fondazione Campania dei Festival, ma pure consigliera d’amministrazione del Forum delle Culture, ma pure consigliera del Festival di Ravello.
Mi sono già ampiamente espresso sul perverso e palese intreccio delle convenienze reciproche e sulla spartizione lottizzata di ogni minimo centro di potere decisionale e su come ciò renda impossibile l’accesso progettuale e lavorativo a imprese e lavoratori non allineati, nell’arrogante ostentazione della più completa assenza di regole certe, pubbliche e trasparenti e con l’utilizzo monopolizzato delle risorse pubbliche, come i Fondi Europei, per giocare a fare il produttore e il distributore di se stessi, in un delirio di egolatria, senza precedenti.
Per quanto, però, mi sforzi di comprendere le motivazioni “culturali” dell’affermazione di cui sopra, quella cioè che accosta De Fusco a Peter Brook, ciò mi risulta oltremodo difficile e delirante.
Peter Brook ha consacrato il suo teatro a valori che sono diametralmente opposti a quelli del sig. De Fusco, oltre al fatto che, prima di essere sdoganato dall’ “establishment” teatrale mondiale, ha dovuto soffrire per affermazione di quei valori, conquistare sul campo la stima di “grande regista” del ‘900 e non già come il sig. De Fusco, che tale titolo lo auto assume, proprio come tutta la sua carriera, improntata alle sue parentele di partito, ultima in ordine di apparizione, quella con lo zio Gianni Letta. La sua carriera, artisticamente mediocre, si configura come poco più di un pretesto per giustificare l’assegnazione di incarichi di potere, dalle Ville Vesuviane, allo Stabile del Veneto, al Mercadante, via via fino al Napoli Teatro Festival, ormai esautorato totalmente dalla stessa Fondazione Campania dei Festival, per finire con la cattedra all’Accademia, al posto del pensionato Giulio Baffi, anche qui, con la complicità dell’amico di merende Sciarelli.
La cosa non ci scandalizzerebbe più di tanto in un Paese dove il conflitto di interessi è come per la Colombia il narcotraffico, una pandemia, cioè, da cui appare impossibile liberarsi, ma l’accostamento assurdo, irriverente, provocatorio e kafkiano tra il nostro e Peter Brook è strategicamente tendenzioso e pericolosamente mistificatorio, funzionale, cioè, a quel progetto di omologazione e sclerotizzazione culturale, figlia di quell’abominevole “la cultura non si mangia”, insito nell’indirizzo politico, dichiaratamente classista, del direttore dello Stabile Pubblico Napoletano, il quale, com’è noto, afferma che oggi il Teatro Pubblico deve essere il teatro per la borghesia, intendendo per borghese un pubblico in grado di pagare un biglietto da 35 a 90 euro, magari per uno spettacolo mediocre, realizzato con appena 720mila euro di soldi pubblici, di cui il suddetto metteva in tasca anche il 35% degli incassi.
Contro tutto questo si scaglia, duramente, proprio il teatro di Peter Brook, a cui il suddetto Luca De Fusco accosta il suo raccomandato nomino:
“Il “Teatro mortale” si può dare per scontato a prima vista, semplicemente perché significa cattivo teatro. Si tratta della forma di spettacolo che ci capita di vedere più di sovente, oltre al fatto che è anche quella che più direttamente si ricollega al tanto disprezzato e combattuto teatro commerciale.
Il “Teatro mortale” si insinua lugubremente fin nel melodramma e nella tragedia, nelle commedie di Molière e nei drammi di Brecht. Nelle opere di W. Shakespeare, poi, il Teatro mortale si trova quanto mai a suo agio, vi s’annida tranquillamente in tutta comodità. C’è poi sempre lo spettatore “mortale”, che per certi suoi motivi speciali gode persino della mancanza d’ogni intensità, persino della mancanza d’ogni divertimento, com’è il caso dell’erudito che emerge con un sorrisino sulle labbra dalle rappresentazioni di routine dei classici, poiché nulla è venuto a distoglierlo dall’ennesimo tentativo di confermare a se stesso le proprie meschine teorie, consentendogli, anzi di rimormorare a mezza voce i versi preferiti all’unisono con gli attori.
Al teatro il pubblico chiede qualcosa che si è abituati a definire “migliore della vita” e per questo motivo le platee sono predisposte costituzionalmente a confondere la cultura (o i trabocchetti della cultura) con qualcosa che non conoscono, ma che oscuramente sentono che davvero esiste, e così, tragicamente, elevando ciò che è pessimo agli altari del gran successo, il pubblico non fa altro che ingannare se stesso.
Ma l’imitazione delle forme esteriori del recitare non fa che perpetuare il manierismo, cioè qualcosa che è impossibile mettere in relazione con qualcos’altro.
Sempre a proposito di Shakespeare, udiamo e leggiamo continuamente la stessa raccomandazione: “Recitate com’è scritto”. Già, ma che cosa è scritto? Segni vergati sulla carta, ecco tutto. Le parole scespiriane, infatti sono la registrazione materiale delle parole che Shakespeare voleva che fossero dette, parole destinate a sortire, sotto forma di suoni, dalle labbra di gente viva, con tanto di intonazione, di pause, di ritmo e di gesti, che dovevano far parte integrante del significato verbale. La parola non comincia a esistere come tale, ma è un prodotto finito che nasce come impulso, stimolato dall’atteggiamento e dal comportamento; e sono appunto questi che impongono l’espressione. Tale processo si verifica nell’intimo del drammaturgo e si ripete nell’intimo dell’attore… È vano fingere che le parole da noi usate a proposito di drammi classici, come “musicale”, “poetico”, “più grande della vita”, “nobile”, “eroico”, “romantico”, abbiano significati assoluti. Si tratta infatti dei riflessi di un atteggiamento critico appartenente a un periodo particolare e, quindi, il tentare di predisporre oggi una rappresentazione in modo che rispetti questi pretesi canoni, costituisce il modo più sicuro di fare “teatro mortale”; un teatro mortale di tale rispettabilità da poter passare per verità vivente.” … Peter Brook
Accostare, dunque, De Fusco a Brook, è distruggere l’essenza stessa del teatro, è affermare che basta avere un po’ di quattrini e un po’ di potere e ci si può comprare il biglietto di ingresso nella storia del teatro mondiale. Non si tratta di accostare due modi di fare teatro, due storie teatrali diverse tra loro, ma di accostare un falso storico ad una verità artistica profonda e conquistata sul campo.
Il teatro mortale di Luca De Fusco e quello immortale di Peter Brook, potevano trovare posto l’uno accanto all’altro, solo nella perversione ignorante ed arrogante di una classe dirigente che ha portato l’Italia allo sfascio culturale, economico ed etico, e di cui la am…miraglia della incultura napoletana è la degna rappresentante.
Carlo Cerciello