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QuartaParete intervista l’artista partenopeo attualmente a Parigi con la sua compagnia teatrale Babbaluck.

Sergio Longobardi

Perché un artista napoletano come te, un artista a stretto contatto con la città, con le sue viscere, decide di andare a Parigi? Emigrante o scelta artistica?
Diciamo che è una sfida personale. Non è per niente facile, soprattutto quando non hai più 20 anni… quindi non è dettata dal fatto che qui sia più facile, anzi. Soprattutto per chi a Napoli, in Italia è conosciuto. Qui è come se dovessi ricominciare tutto daccapo. È una sfida personale che mi consente di stare in una dimensione di apertura maggiore. A Napoli avevo quasi chiuso ma io non do mai, per mia vocazione, la colpa all’esterno, non è Napoli che è sbagliata, ero forse io che ero entrato in dei meccanismi artistici che non mi facevano vedere oltre. Questo l’ho visto con l’esperienza, facendo fatica nonostante io faccia sempre lo stesso lavoro; sono sempre io, con le mie modalità, faccio sempre le mie cose. Sono sempre alla ricerca di una strada ma so che questa ricerca non finirà mai, sono sempre alla ricerca.

Come vedono i francesi il teatro della nostra Napoli?
Credo che ci sia una buona dose di esotismo. C’è sicuramente una maggiore attenzione verso tutto quello che viene da fuori cosa che non c’è a Napoli. Nonostante sia una città molto importante è ancora molto chiusa in se stessa. Invece Parigi è molto aperta verso il teatro estero, c’è stata ad esempio una bella retrospettiva sul teatro argentino. Ci sono un sacco di artisti che vengono qui e tra questi a volte anche alcuni napoletani; ho visto Arturo Cirillo, Romeo Castellucci… Il teatro della nostra Napoli, che è fatto di tantissimi artisti validi, qui non è molto presente… Io spero di poter organizzare una rassegna, un ciclo per mostrare un po’ di quel nuovo teatro napoletano che è quello che mi interessa di più, mi interessano i progetti nuovi come Punta Corsara ma anche quelli dei miei “colleghi di strada” come Antonello Cossia. Ovviamente qui c’è Servillo e altri: non ti parlo dei mostri sacri, parlo di un teatro contemporaneo che non è molto forte qui.

Da poco è rinata la compagnia Babbaluck, con quali prospettive?
Innanzitutto faremo un progetto con le scuole del territorio delle Banlieues, le periferie parigine. Poi cercherò di mettere in scena I giganti della montagna di Pirandello con degli adolescenti delle Banlieues parigine, sto cercando di portare avanti il mio progetto di clown e filosofia. Un mio spettacolo ha avuto già due residenze ed è stato fatto al festival di Benevento ed è un’autobiografia che faccio insieme al videoasta Luca Acito, quindi teatro-documentario, dal titolo Le coq sur les poubelles (Il gallo sulla monnezza) che sto scrivendo sia in italiano che in francese e di cui ci sono due versioni: una prima monologante in cui sono solo e una seconda con altri attori. Abbiamo lavorato sui rapporti nel lavoro e questo progetto continuerà con una ricerca sull’amore e sulla morte per fare quindi una trilogia di spettacoli. Queste sono le cose che sta facendo, per ora, qui, Babbaluck.
Babbaluck è estremamente legata a me e agli incontri che faccio, come era anche a Napoli: nel periodo di maggiore forza ho incontrato gente come Chicca Bartolomeo, Marco Zezza, Daniela Salernitano. Soprattutto artisti visivi, oltre agli attori come Antonio Laieta, Emanuele Valenti… Mi scusino tutti quelli che non ho nominato ma Babbaluck è stata una fucina di idee, di persone molto importante per certi anni e la stessa cosa, per certi versi, sta iniziando qui.

Sei stato uno dei massimi interpreti del Rinascimento Teatrale napoletano degli anni ’90, cosa rimane di quell’esperienza oggi, quali progetti sono figli di quella generazione?
Guarda, ti ringrazio, però io non so se ci sia stato un vero e proprio rinascimento a Napoli, senza dubbio ci sono un sacco di artisti validi. Il teatro che faccio io è sempre lo stesso alla fine e non mi annoia mai. È evidente quindi che mi porto dietro quello che ho fatto a Napoli e non posso certo rinnegarlo, soprattutto il teatro di strada che per me rimane sempre una grande fonte di ispirazione. Quell’esperienza la sento anche come una forte responsabilità…

La Marotta&Cafiero, editrice della nostra testata, sta creando una biblioteca teatrale a Napoli, precisamente nel quartiere Scampia, qual è un volume che non può assolutamente mancare nella biblioteca di un attore, drammaturgo, regista, tecnico, amante del teatro?
Io leggo soprattutto in merito agli spettacoli che voglio inscenare, in questo momento, per un progetto futuro, sto molto leggendo riguardo ad Adamo ed Eva, quindi consiglierei Il diario di Adamo ed Eva di Mark Twain che non è scritto per il teatro ma mi piace molto.

La nostra testata ha dedicato uno speciale ad Annibale Ruccello a 25 anni dalla sua morte. Quale apporto ha dato Ruccello alla nascita della nuova drammaturgia napoletana?
Sicuramente grandissimo, era un grandissimo artista che, come Moscato, ha posto le basi affinchè noi, dopo di lui potessimo fare il nostro teatro di sperimentazione. Anche lo stesso Martone… Ci sono persone che hanno aperto questa strada… A Napoli c’è un pubblico fantastico ed esigente e credo sia anche merito di Ruccello.

Cos’è per te la quarta parete?
È quella che io penso si debba dissacrare, abbattere. E poi, in realtà, in teatro non esistono pareti… Io provengo dal teatro di strada e il mio modo di lavorare non prevede assolutamente alcuna parete.

 

Gennaro Monforte

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