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In teatro l’opera di Pirandello che narra la storia dell’uomo che divenne una macchina in nome del progresso tecnologico.

Ci accoglie una scenografia molto semplice con solo uno schermo che indica volta per volta allo spettatore dove e quando si sta svolgendo la scena.

Siamo nel novembre del 1923 e ci troviamo nella Dolce Casa di Campagna di Sorrento. Veniamo informati del suicidio di un ragazzo, Giorgio Mirelli, di cui si farà accenno anche in seguito ma che non vedremo mai. Il suo gesto è dovuto all’amore per una donna che lo ha tradito con suo amico. Ritroveremo entrambi nel corso della storia.

Il professore privato, Serafino Gubbio, comunica alla sorella del defunto, Valeria Frallicciardi nel ruolo di Duccella Mirelli, che abbandonerà il Bel Paese per tentare la fortuna a Roma.

Serafino, con il suo grande bagaglio, arriva alla stazione capitolina e incontra un suo amico, il filosofo/barbone Simone Pau, che lo conduce nell’Ospizio dei Poveri. Lì incontrerà un’altra sua vecchia conoscenza, interpretato da Antonio Piccolo, che lo introdurrà nel magico mondo del cinema iniziando a lavorare per la nota casa cinematografica Kosmograph.

Il nostro “eroe” diventerà così un operatore cinematografico e involontariamente si troverà in una situazione difficile di gelosia e vendetta che non può controllare. Serafino è sì coinvolto nella vicenda ma allo stesso tempo ne è fuori. Guarda tutto come se stesse girando la scena di un film. Subisce gli eventi senza poterli modificare e non ne è diretto protagonista. Anche senza macchina è solo l’operatore che assiste e ascolta i veri attori della storia. Parla poco Serafino, più che altro ascolta passando da una conversazione all’altra. Ognuno esprime il suo punto di vista e le sue ragioni. Serafino rimarrà calmo e distaccato anche di fronte alla morte e alle richieste provocatorie degli attori che vorrebbero fare a meno di lui chiedendo di fare in modo che la manopola della macchina da presa vada da sola. Se perfino la sua mano non è indispensabile per gli altri, figuriamoci la sua vita.

Questa storia di intrecci amorosi e di morte mostra anche come Serafino non solo non sia in grado di uscirne completamente ma anche di non prendere posizione rispetto ai suoi sentimenti verso le donne che gli girano intorno. Donne che non lo vedono veramente e la cui vita è condizionata sempre da un altro uomo.

Serafino Gubbio viene interpretato magistralmente da Giuseppe Cerrone, che riesce per più di 50 minuti a mantenere la stessa espressione impassibile e lo stesso tono di voce neutro. È l’unico attore in scena ad interpretare un solo ruolo.

Gli atri attori, ovvero Raffaele Ausiello, Stefano Ferraro,  Valeria Frallicciardi, Pietro Juliano, Sara Missaglia, Antonio Piccolo riescono a passare ottimamente da un personaggio all’altro cambiando aspetto, tono, gesti e in alcuni casi assumendo anche una particolare cadenza. Tutti insieme raggiungono momenti altissimi di coralità dove si uniscono in una sola voce o in una sequenza continua di voci che ricopre completamente Serafino Gubbio.

La regia è a cura di Aniello Mallardo, che si è occupato anche dell’adattamento del testo riprendendolo da I quaderni di Serafino Gubbio operatore di Luigi Pirandello. È una delle novelle meno note dell’autore ma anche una delle più nichiliste.

Come ci svela lo stesso Mallardo, nelle sue note di regia, la storia prende vita dalla Seconda Rivoluzione Industriale che si sviluppò in Occidente tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento e dal Manifesto del futurismo composto da Marinetti nel 1909. Qui viene ripudiato il ruolo dell’intellettuale a favore della macchina e del progresso tecnologico. E fu così che un professore privato perse la sua umanità per diventare semplicemente una mano.

Serafino Gubbio Operatore, presentato da Teatro in Fabula, sarà in scena fino al 18 dicembre al Teatro Elicantropo, sito in vico Gerolomini n. 3

Gabriella Galbiati

Per info e prenotazioni:

081/296640

www.teatroelicantropo.com

 

Orari spettacoli:

da giovedì a sabato ore 21, domenica ore 18

 

 

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