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Sul palco del piccolo teatro napoletano un lungo sogno diventa un viaggio alla riscoperta di Napoli.

Buio. Più precisamente notte. La notte che, per immaginario o semplici credenze popolari, è sempre la culla di qualcosa di misterioso. In questo caso diventa culla di uno strano sogno, un viaggio onirico che attraversa la storia della città di Napoli, un viaggio fatto di storie, leggende misteriose che sono ormai radicate nella cultura popolare.
E chi potrebbe accompagnare gli spettatori in questo viaggio notturno se non ‘O munaciello (Olimpia Panariello), leggendario spiritello dell’immaginario napoletano. È proprio lui che alza il velo della notte e “da  vita” ai fantasmi, cantori del viaggio.

In Viv le Ruà il passato di Napoli e le sue leggende, le sue credenze si sfiorano, poi si toccano sempre di più fino a fondersi in un unico grande sogno che rimanda di continuo, in modo ossessivo, alla cabala, alla smorfia, anch’essa radicata e incastonata nei vicoli e nell’anima di Napoli. Ecco che quindi i 6 fantasmi in scena, fantasmi di una antica nobiltà settecentesca e ultimi testimoni di un’antica tradizione che quasi sono costretti a dover tramandare per non farne perdere memoria, diventano attori, di storie vere o forse semplici leggende che si susseguono in maniera frenetica e senza apparente collegamento proprio come in un delirio onirico.
L’ottima regia di Ciro Pellegrino rende in maniera perfetta l’atmosfera onirica grazie anche alle costanti proiezioni, ai giochi di luce e soprattutto alla bravura degli interpreti (in scena, oltre allo stesso Ciro Pellegrino: Manuela Schiano Lomoriello, Paola Maddalena, Marcello Raimondi, Rossella Santoro e Ciro Scherma) che oltretutto, nelle scene corali, ricordano molto i protagonisti del famoso Rosario dei femminielli da La Gatta Cenerentola di Roberto De Simone (qualche richiamo c’è anche nell’interpretazione data al personaggio del Munaciello); da brividi il racconto finale che parla della leggenda del principe di San Severo, ultima emozione prima che il Munaciello faccia calare di nuovo il velo sui fantasmi addormentandoli in vista del prossimo sogno.

Un ultima nota per il finale: sui saluti, lo spettacolo, quasi come La cantatrice calva di Ionesco, sembra ricominciare daccapo. È forse il simbolo di un bisogno, quasi vitale, di lavorare incessantemente affinché non venga perduta traccia del nostro passato culturale?

Gennaro Monforte

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