Gramsci, cronache teatrali dall’«Avanti!»: Tina Di Lorenzo
Cronache teatrali dall’«Avanti!», 1916-1920
Tina Di Lorenzo
Esiste un pregiudizio, ancora radicato in molti, sebbene battuto in breccia dalla categoria degli uomini che pensano. Per esso si classificano gli uomini e li si giudica a seconda dei caratteri comuni che essi mostrano di avere tra loro. Si segue precisamente il criterio proprio delle scienze naturali, che devono classificare le piante e gli animali e non possono farlo che a seconda delle forme appariscenti alla superficie di questi esseri. Ma la classificazione non è precisamente la forma di conoscenza che deve adottarsi con gli uomini, né il riuscire a fissare dei tipi (serie di esseri simili rappresentate da esemplari che ne sintetizzano le caratteristiche) è una forma di giudizio. Perché negli uomini, che noi possiamo studiare e conoscere anche nelle loro qualità individuali, ciò che piú interessa è precisamente l’individuo e il complesso di doti che lo fanno inconfondibile nella specie: che lo rendono insostituibile da qualsiasi altro esemplare della sua specie. Se ciò si può dire degli uomini in genere (e ogni uomo, anche il piú comunemente detto comune, ha qualcosa che lo rende in sé interessante) si deve dire specialmente di quel certo numero di essi che estrinsecano la loro attività attraverso forme di vita in cui la fantasia creatrice ha il predominio assoluto sulla logicità. Se la logicità può ancora dare modo di stabilire delle categorie (scuole, costumi, ecc.) la fantasia non è che prettamente individuale. E gli attori di teatro, quando sono artisti, sono appunto di questo numero di individui. E Tina Di Lorenzo è di essi. Perciò non può essere classificata neppure in quella categoria, lusinghiera apparentemente, dei grandi. Perché dire grande vorrebbe dire stabilire una scala di valori, ricorrere a dei confronti, classificare. E invece l’artista non è grande o piccolo: è o non è tale, semplicemente. Lo studio può essere rivolto solo alla osservazione del come lo sia, può essere rivolto a stabilire il come si svolge questa sua particolare attività, che è tutta lui, che è ciò che ci interessa. Cogliere l’attimo vivo, abbandonarsi al fluire di questa vita, e risentirla in sé come qualcosa di solidamente compatto, che si impone all’ammirazione, che ci domina in quel momento, come fosse tutto il mondo, il solo mondo esistente. A noi basta affermare nella Di Lorenzo l’esistenza di questa attività fantastica. Essa si afferma concretamente ogni qualvolta il lavoro da interpretare le dà la possibilità di ricreare una donna che veramente abbia vita. La Di Lorenzo riesce a calarsi nel suo animo, a intenderne la necessità psicologica, e diventar lei. Ogni opera drammatica è una sintesi di vita, è un frammento di vita. L’artista deve continuare il lavoro fantastico dell’autore. Nella sintesi, nel frammento deve sentire la continuità, l’accessorio, l’alone che circonda la luce, ciò che è vita diffusa, ma sentirlo in relazione all’esistente creato dall’autore, sentirlo come lo sentiva la fantasia dell’autore quando scriveva quelle tali parole. Perché dovendo dare vita fisica, reale persona alla bocca che pronunzia quelle parole, deve creare un accordo, un’armonia, solo dalla quale scaturisce la bellezza. E questa bellezza scaturisce dalle interpretazioni della Di Lorenzo. E la suggestione è accresciuta da altri fattori. Principalissimo un fascino speciale, diffuso in tutti i momenti dell’attività dell’artista, che riesce a incatenare l’attenzione anche quando la materia sorda, imposta dalle necessità pratiche della professione e del mercato, non le permette un lavoro definitivo di creazione. È un fascino difficile da definire, difficile perché il costume non libero dai pregiudizi della morale volgare, dà apparenza di volgarità a ciò che non è certamente tale che per gli sciocchi, e che perciò convenzionalmente si esprime con la parola banale di femminilità. Ma non è possibile nella cronaca fare piú che delle affermazioni. E del resto noi non vogliamo che servire a stimolare l’osservazione dei nostri lettori, e per quanto possiamo, snebbiare un po’ la loro retina da certi pregiudizi.
(22 dicembre 1916)
Antonio Gramsci