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Il viaggio di Andrea Renzi attraverso il romanzo di Hrabal giunge al termine con l’Ideale greco del Bello.

Una solitudine troppo rumorosa, noto romanzo di Bohumil Hrabal, scrittore ceco vissuto nel secolo scorso, è un testo che accompagna ormai da diverso tempo l’itinerario artistico di Andrea Renzi, regista ed attore; da quando, cioè, nel lontano 1995 decise di mettere in scena L’uomo di carta, la prima delle tre parti di quella che egli stesso definisce un’opera teatrale in tre movimenti. Ed oggi, a ben dieci anni dalla rappresentazione della seconda parte, Hanta e il paradiso delle donne, va in scena l’intera opera con il debutto della terza ed ultima parte di questo lungo progetto dal titolo L’ideale greco del bello. Il desiderio di dare corpo e voce ad Hanta, il protagonista del romanzo, di seguirne sino alla fine l’evoluzione interiore lasciandosi catturare e trasportare, per diversi anni, dalla penetrante cifra stilistica di Hrabal, ha indotto Renzi a dar vita a questa intensa avventura teatrale, come lui stesso asserisce: «Io mi nutro di Hrabal come Hanta si nutre di quelle piccole frasi che succhia come una caramella».

 

«Da trentacinque anni presso carta vecchia e libri, da trentacinque anni mi imbratto con i caratteri, sicché assomiglio alle enciclopedie, delle quali in quegli anni avrò pressato sicuramente trenta quintali, sono una brocca piena di acqua viva e morta, basta inclinarsi un poco e da me scorrono pensieri tutti belli, contro la mia volontà sono istruito e così in realtà neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti, e così in questi trentacinque anni mi sono connesso con me stesso e col mondo intorno a me, perché io quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiarsi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alle radicine dei capillari».


Il primo Hanta che incontriamo è l’uomo di carta, il giovane addetto ad una pressa meccanica che trasforma carta da macero in pacchi compatti e che, grazie alla sua sensibilità, all’amore per i libri e alla sua cultura accresciutasi negli anni, riesce a rendere il suo lavoro, fatto per lo più di gesti meccanici e ripetitivi, qualcosa di creativo e fantasioso: i suoi pacchi non sono semplici pacchi ma delle vere e proprie opere d’arte in cui dimorano, come in sepolcri di carta,  preziosi volumi. Ogni pacco, infatti, è diverso dall’altro e Hanta sa riconoscere quello in cui ha sepolto Nietzsche, Goethe e tutti quei libri che nel corso degli anni ha “pescato” tra quintali di carta da macero e di cui ha nutrito la sua anima.

 

«Ogni giorno io sbigottisco dieci volte, come ho potuto allontanarmi così da me stesso. Così alienato e derubato ritorno anche dal lavoro, silenzioso e in profonda meditazione cammino per le vie,oltrepasso i tram e le auto e i passanti nella nube dei libri che ho trovato quel giorno e che porto a casa nella borsa,passo sognante col verde senza neppure accorgemene, non urto contro i lampioni nè contro i passanti,soltanto cammino e puzzo di birra e di sporcizia,ma sorrido, perchè in borsa porto libri dai quali mi aspetto che a sera da loro apprenderò su me stesso qualche cosa che ancora non so».


Nella seconda parte dell’opera ritroviamo Hanta immerso nel paradiso delle donne e nei ricordi dei suoi amori passati; egli è un uomo che, al pari di Hrabal, ha vissuto e attraversato momenti cruciali del secolo scorso, come la seconda guerra mondiale, e così lo sterminio di ebrei e zingari rivive tra le righe di un poemetto scritto da Hanta ed ispirato dall’amore per una giovane zingara passata per il camino in un giorno d’inverno.

 

«E adesso tutto si ripete dentro di me, da trentacinque anni pigio i bottoni verde e rosso della mia pressa, da trentacinque anni però bevo anche brocche di birra, non certo per il bere, io ho orrore degli ubriachi, io bevo per aiutare il pensiero, per arrivare meglio al centro stesso dei testi, perché quello che io leggo non è né per divertimento né per far passare il tempo o addirittura per addormentarmi meglio, io, che vivo in un paese in cui quindici generazioni sanno leggere e scrivere, io bevo per poter non dormire mai piú a causa della lettura, perché la lettura mi faccia venire il tremito […]».


Il passaggio ad una nuova epoca in cui si vive in modo affrettato, superficiale ed impersonale, rappresentato nel suo microcosmo da una pressa che lavora con l’acqua, stravolge completamente la vita di Hanta. Il suo lavoro e la sua passione risultano inadeguati al contesto in cui sono compiuti ed egli stesso si rende conto di essere diventato una sorta di moderno Sisifo condannato dal destino a ripetere continuamente il medesimo, inutile sforzo. Ritroviamo così il vecchio Hanta sempre più perso nei benefici “tremiti” che la birra sa donare, costretto  ad una pensione forzata, alla noia vissuta in una solitudine esasperante, lontano da un mondo in cui egli ormai non si riconosce più, corroso da quella nausea così ben descritta da Sartre che lo costringe a scegliere, come Hrabal, di porre fine alla sua esistenza perché tanto, come Amleto, anche lui non ha paura della morte, perché “essere pronti è tutto”.

Al di là dell’indubbia qualità formale dello spettacolo, Andrea Renzi ha soprattutto il merito di aver posto l’accento, attraverso un profondo ed intenso scandaglio interpretativo, sugli aspetti più squisitamente filosofici del testo di Hrabal. In particolare è la riflessione sul tempo, che come un sottile fil rouge si dipana lungo tutto il corso dell’opera, a rivestire un ruolo di primaria importanza. Il racconto della personale vicenda di Hanta si rivela difatti un efficace espediente drammaturgico volto a rivendicare per l’uomo la necessità di riappropriarsi del valore di quel “tempo dilatato” in cui la solitudine, come recita lo stesso titolo del romanzo di Hrabal, diventa qualcosa di troppo rumoroso, una specie di riposto anfratto dell’anima in cui immergersi per rifuggire dalla cecità dilagante del “tempo contratto” imposto da una sempre più frenetica e spersonalizzante società.

Parlare di “tempo dilatato” quando la realtà sembra andare in tutt’altra direzione, di libri preziosi quando il voyeurismo passivo della società tecnocratica ci priva dell’odore della carta, di lunghi periodi di inattività quando la pensione è una chimera per giovani e meno giovani, ha la forza dirompente di un discorso “inattuale” perché fortemente critico dello status quo. Ancora una volta, dunque, il teatro ci spinge a riflettere, a riconsiderare i nostri valori per indurci a reagire al processo di de-moralizzazione in cui siamo inevitabilmente coinvolti.

 

«Quando gli occhi mi capitano su un libro come si deve, quando rimuovo le parole stampate, del testo anche qui non restano che pensieri immateriali, i quali svolazzano per l’aria, poggiano sull’aria, dall’aria sono nutriti e nell’aria ritornano, perché tutto in fin dei conti è aria…».

 

Irene Bonadies

(consulenza letteraria di Armando Mascolo)

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Teatri Uniti

UNA SOLITUDINE TROPPO RUMOROSA
con Andrea Renzi, Giulia Pica
regia Andrea Renzi

dal 6 al 15 gennaio al Teatro Nuovo

via Montecalvario, 16
80134 Napoli • Italy
tfx + 39 081 406062
+ 39 081 425958
botteghino +39 081 4976267
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botteghino@nuovoteatronuovo.i

 

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