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Alla Galleria Toledo di Napoli, in prima nazionale, Monica Scattini porta in scena la storia di una trans che insegue il sogno di una esistenza normale.

Fonte foto ufficio stampa

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Bisognerà fare qualche sforzo per convincersi che non esistano altro che parrucche, tacchi alti e vestaglie da camera leopardate nella vita quotidiana di un trans, che a suonare nella sua stanza privata non possano essere che Ornella Vanoni e Mina, che tutto, almeno per ciò che riguarda l’estetica, non sia così simile ad un vile luogo comune.
Bisognerà tentare di sforzarsi a pensare il contrario, a  scacciare via da sè il luogo comune sebbene per deformazione sociale esso tenda irrimediabilmente ad albergare in ciascuno, in quanto dopo la visione di Unghie il luogocomunismo silente rischierebbe di andarsene in rigoglio, senza un’operazione di contenimento che vi si opponga.

Lo spettacolo, scritto da Marco Calvani e Marco Marra, con la regia dello stesso Calvani, andato in scena a Galleria Toledo (6-8 gennaio 2012), è la narrazione di poco più di un’ora della vita di una transessuale, Kim, in preda a sbalzi d’umore continui, soggiogata da alcol e psicofarmaci, che lamenta la solitudine da cui è affetta ma, contemporaneamente, scaccia chiunque provi a riportarla alla realtà. Più semplicemente: scaccia chiunque. La cercano al telefono, con insistenza, una suora, evidentemente incaricata ad una sua riabilitazione (l’articolo indeterminativo non è utilizzato a caso), che la vincola ad atti di preghiera sparsi; un medico, probabilmente uno psicanalista e, soprattutto, gli uomini che ha avuto: le fanno compagnia in casa sua, rappresentati da decine di scatole che lei utilizza per non dimenticarli. Sono ricordi che adornano il vuoto di un solingo appartamento kitsch.
Ma ciò che più di ogni altra cosa pare che la cerchi, la perseguiti, è un presente ossessivo da cui si sente oppressa, allo scadere di una notte in cui qualcosa è successo, in cui c’è stata una recisione che non consente di tornare indietro. In cui una identità irrimediabilmente diversa ha compiuto un ultimo, inquietante atto.

Ciò a cui si assiste è il racconto di una liturgia preparatoria ad un gesto che lo spettatore ha sempre davanti agli occhi: Kim usa un  rasoio per difendersi dalla paura di un’aggressione ipotetica, per limarsi le unghie e, infine,  per mutilarsi. Lo fa in un finale che non lascia troppo spazio all’immaginazione (sangue compreso), e che non lascia indifferenti pur se induce chi osserva a fare una amara riflessione: quello della protagonista, fatta eccezione per le ambientazioni e le vicende personali che la riguardano, sembra un dissidio interiore generico, di una persona respinta dal mondo che le sta attorno o, per meglio dire, non contenta del modo in cui viene accettata. Il suo taglio, più che fisico, sembra un atto metaforico di chiusura col passato e, al contempo, di manifesto rimpianto per il passato stesso che, con quel gesto, sta abbandonando.

È tutto lecito, ben recitato da una istrionica e coinvolgente (e coinvolta) Monica Scattini, ed anche sufficientemente empatico, con picchi drammatici e comici molto definiti e didascalicamente coadiuvati da musiche e luci, nonchè da una scenografia che si caratterizza per la presenza di una gigantesca e debolmente provocatoria Maria sullo sfondo, intenzionata a tenere viva un’idea di “normalità” dell’abitante di quella casa. Elementi certamente validi per costruire qualcosa che funzioni, ma che alla fine rischiano di funzionare a metà perchè incapaci di raccontare di più rispetto a quanto già non si sappia, o meglio si presume di sapere riguardo una realtà che si conosce solo da lontano.

Ritornando al principio, però, ribadendo il rifiuto per l’idea che un transessuale, per essere tale, non possa esimersi dal ruolo di supernova, di principessa ridondante, si sarebbe preferito se ad essere ricalcati fossero stati l’intimismo, la grazia e la dolcezza, la levità, ovvero aspetti naturalmente attinenti – accanto a tutto il resto – alla condizione descritta e che lo spettatore ha incontrato, ma di sfuggita, mentre maggiore spazio è stato dato alla sacralità ricercata e non naturale, al fattore “regina”, che tuttavia la protagonista ha reso con merito.

A dispetto di un’ora e mezza di intensa rappresentazione, dunque, si potrebbe parlare di un’occasione perduta se alla base dell’idea avessimo la certezza che gli autori si fossero posti uno scopo divulgativo; ma è possibile che questa intenzione prioritaria non ci fosse e che, pertanto, non si puntasse ad altro che ad una rappresentazione di genere, per un pubblico già selezionato e consapevole.
Decisamente efficace, invece, oltre che indicativa del momento migliore della piece, è stata la bella riproposizione italiana di “My way”, celebre canzone da sempre cantata più che capita: sarebbe stato un ottimo incipit, è stata la chiusura dello spettacolo.

Andrea Parré

Galleria Toledo
Via Concezione A Montecalvario, 34, Napoli
Conatti: 081 425037 – www.galleriatoledo.org

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