Confronto d’autori sulle “ombre” di Napoli
Al Sancarluccio due atti unici di Vittorio Adinolfi e Luca Nasuto legati dalla Napoli anni ’50.
Napoliscura è il titolo dello spettacolo, in scena al teatro di via S. Pasquale, che mette a confronto due testi che indagano due facce diverse della stessa Napoli per di più in due modalità distinte. I due atti unici che caratterizzano la pièce sono Quinnicina di Luca Nasuto e Abbandonata di Vittorio Adinolfi. Entrambi i testi ricercano una Napoli a tinte noir, una Napoli appunto “Scura”.
Napoli è scura nel testo di Nasuto che analizza la vita di un interno familiare a Castellammare di Stabia, una famiglia formata da madre (Anna Troise), figlio (Maurizio Capuano) e zia (Adelaide Oliano), una famiglia in cui regnano il bigottismo (falso!) della madre Fortunatina e la presunta omosessualità del figlio Achille così tanto attaccato alla veste talare, una famiglia in cui l’astio della madre verso le prostitute (che a suo dire servono solo a portare malattie) scompare quando, proprio una di esse, Cosetta (Cristiana Cesarano), risulta essere il modo per scardinare i pregiudizi su suo figlio. Quando la vicenda sembra risolversi, con la caduta di quei pregiudizi che rischiarano l’oscurità su cui si fondava inizialmente la vicenda, ecco che tutto si ribalta e si riprecipita nelle “tenebre”, questa volta ad opera di Achille che, per amore della prostituta Cosetta, abbatte i propri principi morali e spirituali e decide di liberare la ragazza dalla sua condizione di “schiavitù” ammazzando la sua protettrice.
Ma Napoli è scura anche nel testo di Adinolfi che presenta, invece, una vicenda più surreale: un teatro abbandonato che deve essere abbattuto e su cui circolano insistenti voci: alcune ritengono la struttura abitata da fantasmi, altre ipotizzano la presenza di una donna che vive in quel teatro, ormai dismesso. Più persone, delegate dall’ingegnere (Vito Marotta), sono scappate terrorizzate, l’ultimo ad occuparsi della faccenda è il regista teatrale Marcello (Marcello Cozzolino) incaricato, appunto dall’ingegnere, di parlare con la donna per farle abbandonare finalmente la struttura; in cambio otterrà un contatto con i fratelli De Filippo. Marcello entra nel teatro e riesce effettivamente ad entrare in contatto con una donna (Angela Rosa D’auria) che non è assolutamente disposta ad uscire dal teatro, non per mancanza di volontà ma perché impossibilitata. Quella donna, dai mille e più nomi, dai mille ruoli, dall’età imprecisata, non è altro che la memoria di quel teatro, la memoria della città di Napoli fondata sull’arte che, in passato, in quell’edificio, ha visto il suo splendore: «Non potrò mai essere dimenticata» dichiara la donna per indicare l’effettiva immortalità di una città e dell’arte che vi è ormai radicata; immortalità fatta però ormai solo di ricordi che si esprimono a pieno nel suo canto: «Erano verde… erano verde ‘e ffronne. E mo, só comme suonne perdute… e mo, sóngo ricorde ‘ngiallute…»
Il teatro viene abbattuto, nonostante l’avvertimento del muratore (Diego Sommaripa) che chiede: «ma sicuro ca nun è nu peccato…?», con la complicità dell’ingegnere/speculatore che replica «ma che te ne fotte, pensa ai denari». Marcello rimane colpito dalle macerie e viene portato in ospedale. Quando riapre gli occhi vicino a lui ci sono l’ingegnere e il muratore. «Aprite gli occhi» dice l’ingegnere «la vostra città è lì, non la vedete… non l’abbiamo mica distrutta?».
Marcello, come se fosse “regista” dell’intera vicenda, termina la rappresentazione coprendo tutti con dei fogli da imballaggio e cantando Passione Amara: «Bella pe te nce vo n’ommo perduto, nun cè suspiro ca te po accattà!”. Parole che esprimono a pieno l’amarezza (attualissima!!) per una città, Napoli, sempre più vittima di speculatori, e per un’arte, il teatro, vittima del cinismo commerciale di molti suoi esponenti.
Napoli nonostante le molte ombre scure, in parte evidenziate da questi due ottimi atti unici, continua a conservare il suo fascino ma come si può ascoltare, sempre in Passione Amara: «…si nun vuò bene, che si bella a ffa?».
Gennaro Monforte