Gramsci, cronache teatrali: “Il fanciullo che cadde” di Martini al Carignano
Cronache teatrali dall’«Avanti!», 1916-1920
Il fanciullo che cadde di Martini al Carignano
Misteri abissali, sortilegi, inesplorate cavernosità di anime dedaliche, tormenti senza confine e senza possibilità di espressione verbale e che perciò domandano all’autore discorsi zeppi di parole (moltissimi aggettivi e scarsi sostantivi), di metafore, di ampi gesti abbracciatutto, e agli attori un’orchestica sostenuta e grave come di personaggi da tragedia greca.
Fausto Maria Martini appare, in questi tre atti di Il fanciullo che cadde, come uno spirito pesante, goffo, di una pedanteria filistea spessa come il fumo ammorbante di una lucerna da vecchio letterato aristotelico. Non un guizzo vivo di fantasia, una costruzione lenta, volontaria, meramente esteriore di parole e di frasi e di giri e di intrighi e di spettacolosi duelli oratori, senza che dietro la nebbia verbale sia dato scorgere un’anima viva, una concreta figura umana che si attui in una passione, in una gioia, sia pure in una parola, ma che sia atto espressivo e non vuota sonorità vocale.
Il fanciullo che cadde svolge una successione meccanica di scene, nelle quali si contempla lo sgomitolarsi di due stami vitali che la piú brutta delle Parche filò con soverchia velenosa saliva. Gabriella è lo stame femmineo, Luciano quello virile. Tra i due esiste sortilegio. Gabriella sposa il fratello di Luciano e Luciano per allontanare dalle sue frementi nari l’afrore dell’incesto, salpa per l’Oriente profumato e crudele. Ritorna alla morte del fratello, tutto fasciato di misteri, e che trova? Gabriella ha un figliolino, nel quale il morto fratello rivive, e si erge per separare; la madre non può essere l’amante, cosí come non poteva la sposa. Ed ecco che Luciano, dopo una tonitruante spiegazione, parte «per sempre» una seconda volta per l’ignoto, ed ecco che prima della sua partenza, l’«innocente» cade nelle acque burrascose e miseramente affoga. Ed ecco che un nuovo infrangibile misterioso schermo si frappone tra le due anime e un viperino duello si inizia. Una dolce fanciulla, figlia della disperazione e di Luciano, inventa un giuoco grazioso: richiama il misterioso padre presso la misteriosa Gabriella e si fa galeotto tra i due. Il sortilegio crudele non risparmia, ahimè, neanche la dolce fanciulla! Gabriella si dichiara pazza d’amore, delirante di passione carnale per Luciano, sembra avvolgerlo in una magia folle di desideri; lo trascina verso la voluttà, nella stessa camera d’albergo dove il fanciullo cadde, lo invischia, bellissima e proterva, in una squisita rete di parole capziose e gli fa confessare il delitto; egli, per avere la donna, ha ucciso il frutto delle materne viscere. Quindi leva un vindice pugnale. Ed ecco il sortilegio: Luciano disarma Gabriella e le rivela che è innocente e aveva compreso il viperino agguato e aveva secondato il giuoco per meglio conoscerne l’anima nera. Quindi riparte «per sempre», seco portandosi il pugnale, mentre Gabriella pazza di vero amore, si contorce nel letto illibato.
Cosí il sortilegio si chiude, a meno che Fausto Maria Martini non lo riprenda per rifondere tutto il dramma in un romanzo di pirati e corsari dell’arcipelago o in una «film» a lungo metraggio per Febo Mari e Pina Menichelli.
(23 gennaio 1919)
Antonio Gramsci