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Cronache teatrali dall’«Avanti!», 1916-1920

La canzone di Rolando di Falconi e Zambaldi al Carignano

Il nucleo drammatico di questi tre atti dovrebbe consistere in un fatto sessuale. Dovrebbe, ma gli autori non si sono troppo preoccupati dell’unità, della consistenza del loro lavoro: volta a volta, essi si sono lasciati sopraffare dagli episodi, dal particolare scenico, e cosí il dramma si è venuto svolgendo senza nessuna armonia, senza che la molteplicità dei suoi momenti abbia una profonda ragione di esistenza.

L’intreccio si fonda su un abusato giuoco di prospettiva: mentre un motivo drammatico si inizia per un personaggio, lo stesso motivo si conclude e determina la crisi interiore di un altro.

Il conte Rolando D’Astico ha, nella sua giovinezza, in un istante di ebrietà sconsiderata, violentato una cameriera di sua madre. L’episodio non ha lasciato alcuna traccia nella sua vita successiva: egli ha ignorato la donna, il suo destino, le conseguenze di quel momento di pura animalità irresponsabile. Nei vent’anni che sono trascorsi d’allora ha avuto tempo di rovinarsi per un’altra donna, di diventare una «macchietta»: povero, trascurato nell’apparenza esteriore della sua vita di nottambulo filosofeggiante, vivacchia scrivendo articoli per i giornali, conferenze, libri. Gli autori lasciano comprendere come egli sia un genio incompreso, un uomo di grande intelligenza, sebbene ciò non appaia troppo dalla scena, e da qualche battuta piuttosto povera di umorismo e dalla quale appare solo la mania da gazzettiere dello Zambaldi di occuparsi di cose che non intende. Ma lasciamo andare: anche questa non è che una delle tante prove della poca consistenza del dramma. Il conte D’Astico è un uomo oltre che una caricatura di filosofo, come non poteva non essere nelle mani di questi autori. Come tale, conosce un giovanotto, un pittore di belle speranze anch’egli, che è travolto da una passione ossessionante per una donnetta da poco, una ballerina, una che è stata, e continua a essere, merce sessuale. Il pittore, Stefano Landi, ha però avuto una signorina di buona famiglia e l’ha resa madre.

Rolando lo avvia al dovere, alla riparazione necessaria, e ne ottiene la promessa. Ma ecco che egli stesso viene a sapere di essere padre, di non avere compiuto il suo dovere, e per di piú viene a sapere che sua figlia è proprio quella donnetta da poco, quella ballerina che ossessiona Stefano. Che fare? Quale è ora il dovere? Come deve operare un uomo che diventa padre per sbaglio, inconsapevolmente, senza che egli sia stato unito, alla madre del nato, da vincoli spirituali, oltre che dall’accostamento fisico? Il conte D’Astico non sa rispondere a queste domande. Nessuno dei personaggi regolari sa rispondere. Stefano Landi, che non ha mantenuto la promessa, e non ha alcuna voglia di mantenerla, declama una sua interessata teoria sulla spiritualità dell’accoppiamento. Rolando pare accettarla, ma sua figlia, non conoscendolo come padre, lo atterra con le istintive parole della sua femminilità: ella vuole che Stefano sposi la madre del bambino nato da un istante di stordimento primaverile, e inveisce contro gli uomini che non sanno quale destino creino a tante vite, inveisce contro suo padre, l’ignoto egoista che l’ha ridotta la donna di tutti. Cosí avviene che il conte D’Astico, ammalato di cuore, muoia tragicamente dopo questa crudele scena, senza aver risolto nulla, e senza aver potuto, nella sua persona, accogliere ed esprimere il dramma che gli autori, indecisi tra la «macchietta» e la serietà, tra l’episodio e l’unità, non hanno saputo concretare.

Commossero il pubblico alcune scene di spolvero, e ciò procurò molti applausi agli autori, ad Armando Falconi come attore, e agli altri.

(7 febbraio 1918)

Antonio Gramsci

 

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