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Fabrizio Gifuni porta in scena il racconto sulla trasformazione del nostro Paese attraverso lo sguardo di Gadda ed Amleto.

Adesso , o italiani di tutti i tempi e di tutti i luoghi,

che avete fatto della patria un inferno per i vostri litigi personali, per le discordie, per i veleni,

le bizze, le invidie, dall’epoca dei Comuni a questa parte: adesso ditemi: appartengo io alla vostra razza?

Carlo Emilio Gadda

 

Ancora storditi, ci accingiamo a scrivere queste poche righe con animo già piegato alla dolorosa consapevolezza che le nostre parole si riveleranno quantomai incapaci di restituire, costrette come sono nell’angusto spazio di una breve recensione, tutta la prepotente bellezza e la forza espressiva emananti dallo straordinario esempio di Teatro cui, in questa gelida serata invernale, abbiamo avuto la fortuna di “prendere parte”.

L’ingegner Gadda va alla guerra e Fabrizio Gifuni va in scena per raccontarcelo. Ma il suo non è solo un racconto delle memorie di guerra di Carlo Emilio Gadda, Diari di guerra e di prigionia, scritto in seguito alla sua partecipazione come volontario al primo conflitto mondiale, bensì è il frutto di uno studio approfondito degli scritti di Gadda (oltre ai Diari, infatti, Gifuni attinge anche da Eros e Priapo) volto a intessere, in uno con l’Amleto di Shakespeare, un serrato e struggente dialogo tra lo stesso Gadda e il Principe di Danimarca, per giungere, alla fine della pièce, ad un personale e coinvolgente confronto tra l’attore e il pubblico. E benché Gifuni sia protagonista unico in scena, accompagnato solo da una sedia e dalle luci a fargli da cornice, lo spettacolo sembra attraversato da molteplici anime, tra cui quella dello stesso pubblico che si ritrova ad essere chiamato direttamente in causa, in un crescendo esondante di ricordi, dialoghi e storie che si intrecciano tra di loro in modo intricato, spasmodico e dinamico. Il ritmo incalzante del testo, completamente ripreso da Gadda e Shakespeare e trasposto in una sintesi armonica, viene fisicamente reso, per tutta la durata dello spettacolo, attraverso gesti rapidi e visceralmente compulsivi, la forza espressiva di ogni parola moltiplicata per il movimento che la accompagna definisce il lavoro compiuto sul palco il quale, alla fine della rappresentazione, si trasforma in potenza creativa contagiosa. Fabrizio Gifuni si confronta e affronta le parole di Gadda e, come lui stesso afferma, le «governa per parlare di cosa è successo in Italia e degli italiani, di quelli che sono stati i nostri banchi di prova – come la grande guerra e il ventennio fascista – quelli dei nostri padri e quelli che saranno dei nostri figli». Lo spettacolo diventa così, riprendendo ancora le parole dell’ideatore-attore, «un grande mosaico, nel tentativo di enucleare una piccola parte del DNA del popolo italiano» che ha lo scopo di andare oltre la mera funzione intellettuale, di essere uno strumento con cui agire e re-agire a ciò che ci circonda e accade intorno a noi. Ed è proprio il bisogno di agire e re-agire che ha portato Gifuni ad iniziare questo lavoro di ricerca tra gli scritti di Gadda, che ha seguito un altrettanto lungo ed elaborato studio della prosa di Pasolini terminato poi con la realizzazione di ‘Na specie di cadavere lunghissimo, prima riflessione teatrale sulla storia italiana degli ultimi quarant’anni. Il fare teatro assume quindi, nella concezione di Gifuni, un profondo valore civile, di riscoperta dell’eredità storica e letteraria italiana finalizzata alla migliore comprensione e valutazione del nostro tempo. Il teatro diventa invece “un luogo di conoscenza per la comunità attraverso un’esperienza fisica ed emotiva che coinvolge completamente la persona”, non c’è più distinzione e distanza tra chi è illuminato sul palco e chi è al buio in platea perché il coinvolgimento emotivo e il contatto diretto fatto di sguardi interrogativi è continuo e lo spettatore si trasforma così in creatore dello spettacolo.

Non c’è niente da criticare in un’opera teatrale del genere, c’è solo da imparare.

E per farlo c’è tempo fino a domenica 12 febbraio ore 18.

 

Irene Bonadies

 

 

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