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Sala Ichòs si adatta a diventare chiesa per dissacrare la religione e forse comprenderla di più.

Etimologicamente la parola “devoto” indica “chi ha fatto un voto”. In dialetto napoletano la vocale finale si perde, mentre la parola ammorbidisce la “d” e fa leva sull’accento, con le sonorità tipiche della zona, se ci si sposta a Torre del Greco: Devot’ appunto, a dire l’ultimo spettacolo di Teatro di Legno, che ha chiuso il mese di Sala Ichòs dedicato alla giovane compagnia napoletana. Lo sguardo acuto e rivelatore di Luigi Imperato e Silvana Pirone si è posato stavolta sul culto dell’Immacolata, una tradizione radicata da più di un secolo nella suddetta città vesuviana, e che vede l’8 dicembre celebrato con una festa che si articola in tre giorni (il 6 e il 7 del mese la popolazione si prepara alla ricorrenza, con un preciso rituale intorno alla statua della Madonna) e che culmina con la processione del carro recante l’Immacolata, condotto da circa 150 uomini per le strade del paese.

La messinscena si sviluppa in due momenti principali nella giornata dell’8 dicembre, a partire dalla prima celebrazione del mattino nella Basilica di Santa Croce: sono le 4.30 ma la chiesa è già gremita. Sul palco si presenta un’ipotetica navata con le sedie per i fedeli ordinate per file, e l’altare. Questa disposizione, proposta rispetto al pubblico di profilo, costituisce già una definizione del fuoco che orienta il lavoro in questione. A dispetto infatti della visione tipica e generica di qualsiasi edificio finalizzato al culto cattolico, fotografato oppure osservato negli ambienti interni sempre da una prospettiva frontale nei confronti dell’altare o del presbiterio – posizionamento del punto d’osservazione senz’altro favorevole a una comprensione d’insieme dell’architettura, – l’organizzazione della scena e degli spazi, si rivolge direttamente e senza possibilità di fraintendimento verso i fedeli, con un’inevitabile adattamento alle necessità teatrali. Maggiormente verso la sacralità dell’umano, piuttosto che verso il sacro in rapporto all’uomo.
Tra gli spettatori coinvolti a occupare le sedie della chiesa e ad interagire con gli attori, sono presenti due dei tre protagonisti della storia: Elvira, giovane donna che confermerà la sua apparenza di fedele “tutta casa e chiesa” devota alla Madonna, e l’amica del padre Michelina, un uomo scopertosi donna che è tuttavia calvo, ed è quindi costretto a ricorrere a varie parrucche. Gli imbarazzanti effetti comici che ne conseguono sono presto appurati, in seguito al soccorso rivolto ad Elvira che, dopo un primo confronto sulla fede con la vicina, palesa il suo disturbo: bestemmia la stessa entità a cui è devota, in maniera incontrollata. Il malessere, inizialmente occultato da Michelina e perciò poco chiaro allo stesso pubblico, è fonte di vergogna per il padre, che poco dopo raggiunge la chiesa per l’appuntamento liturgico: don Vincenzo, un anziano vivace, con una mascherina sulla bocca ed evidenti difficoltà a camminare, che distribuisce caramelle.

I tre personaggi sono rispettivamente interpretati da Fabiana Fazio, Salvatore Veneruso e Domenico Santo, attori che danno, con questo spettacolo, rinnovata prova delle proprie esaltanti capacità recitative – Veneruso e Santo già visti in altri lavori di Teatro di Legno, Fazio altrove ma pure d’estro indiscutibile. E le loro caratterizzazioni dei protagonisti si risolvono su differenti livelli: innanzitutto quello della più evidente funzione drammaturgica dei tre, in secondo luogo nel rapporto che ognuno dei personaggi intrattiene con la religione. Si disegna così un’ipotetica scala che li dispone a differenti distanze dalla fede, in relazione al “voto” cui ognuno ha consacrato la propria vita: il più vicino è don Vincenzo, che studiava al seminario minore con dedizione perché “lui è nato prete”, mentre il più lontano è Michele, come l’amico si ostina a chiamarlo, che pure studiava al seminario ma che è diventato agnostico, ostenta la propria identità sessuale e vive la celebrazione dell’Immacolata in funzione della festa che ne consegue. Il vero e proprio snodo narrativo è costituito dalla rivelazione di Michele ad Elvira, circa la presunta morte della madre: la donna aveva abbandonato la figlia dopo la nascita, e don Vincenzo l’ha cresciuta secondo i principi della chiesa, facendole credere che costei era defunta, per non recarle un dolore. Don Vincenzo rappresenta perciò il personaggio più vicino all’amore ideale, frutto concreto della fede, cioè l’amore che giunge a consacrare la  vita dell’uomo per l’altro, facendo un voto della propria esistenza. Tale sviluppo avviene ora nella seconda parte della messinscena, ambientata in casa di don Vincenzo a giornata inoltrata.
Elvira è il punto intermedio in questa scala, un personaggio che giunge a un significato positivo e consapevole della fede – palesato nel monologo finale sull’amore filiale per la Madonna e sugli ideali più rilevanti della cristianità, – maturato attraverso il superamento degli esiti negativi del credo vissuto come ossessione, come compulsione da soffocare.

Tutto il lavoro è comunque impiantato sulla resa dei comportamenti, delle personalità e degli ideali che traspaiono da uno studio sulla devozione, da un’osservazione approfondita di rilievo antropologico, con una spiccata spettacolarizzazione comica. La ricorrenza sacra, il rituale, la chiesa come luogo fisico e come istituzione emergono nella loro preminente funzione di riferimento sociale ed esistenziale. Particolarmente interessanti la scenografia costituita da drappi – funzionali a rendere gli addobbi della chiesa prima, e le balconate poi, – ed il coinvolgimento degli spettatori nella prima parte dell’allestimento, con la componente d’improvvisazione che assicura un surplus di divertimento.
La dichiarazione di lucidità attribuita inizialmente ad Imperato e Pirone – la drammaturgia è di entrambi, la regia della Pirone, – testimonia il carattere di conferma che Devot’ ha in conclusione assunto per chi scrive. Vale a dire che in questa occasione, la compagnia di Teatro di Legno non ha fatto altro che dimostrare nuovamente di racchiudere tra le maggiori, più emozionanti e consistenti energie che le nuove generazioni teatrali napoletane possano proporre al pubblico.

Eduardo Di Pietro

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