Sostegno al reddito e sistema pensionistico: chimere del mondo della cultura
Il direttore artistico di Virus Teatrali, Giovanni Meola, avanza una proposta concreta per provare a risolvere il problema dei contributi agli enti previdenziali da parte degli operatori culturali.
6. CREDITO D’IMPOSTA
La questione dei contributi silenti è scottante e, pur essendo fatta di dettagli delicati e altamente tecnici, credo non ci si sbagli nel sintetizzarla come segue.
A causa della pochezza delle produzioni e delle distribuzioni e dell’attività stessa generale del sistema-teatro-Italia solo una piccola percentuale di lavoratori dello spettacolo versa (o gli viene versato) un numero tale di contributi all’anno da poter sperare di veder convertiti tali contributi in pensione.
La nostra categoria non ha diritto di sostegno al reddito (se non la cosiddetta disoccupazione di cui da quest’anno si sono perse le tracce; N.B. la Cassazione ha confermato che gli attori e tutti coloro che esercitano un’attività ‘artistica’ non hanno diritto alla disoccupazione e che questa può spettare solo ai tecnici del nostro settore), né ad una assicurazione sanitaria.
Per non parlare della pensione che la stragrande maggioranza di noi non vedrà mai nemmeno con il cannocchiale.
I contributi versati all’ENPALS (quando siamo assunti a giornata e ci vengono versati i contributi) e quelli versati alla gestione separata dell’INPS, quando siamo noi stessi a lavorare da liberi professionisti, difficilmente potranno essere riunificati con il risultato che non si potranno ottenere le tutele minime né soprattutto alcuna pensione.
La media delle giornate lavorative (che determina un reddito medio inferiore alla cosiddetta soglia di povertà, intorno ai 7500 euro) è di 90, ben al di sotto di quelle 120 almeno che possono poi comporre un anno pensionistico.
Tutti i contributi che versiamo allo stato già sapendo che non li rivedremo mai in alcuna forma fa di noi una categoria fantasma che però, paradosso dei paradossi, finanzia… lo stato!
La proposta in esame qui è, in maniera anche ingenua se si vuole, quella di non versare più alcun contributo agli enti previdenziali bensì di gestire tali somme per reinvestirle in produzioni e distribuzioni attraverso un meccanismo che volendo potremmo definire di credito di imposta (ma una terminologia esatta potrà essere studiata e decisa di conseguenza) in grado di garantire una crescita dell’attività in termini di repliche e piazze.
Alcune compagnie non finanziate o finanziate ai cosiddetti minimi sono oberate dalle spese relative ai versamenti dei contributi, delle agibilità, dei consulenti del lavoro e rischiano di doversi letteralmente fermare e chiudere bottega.
Dare loro la possibilità invece di poter reinvestire le somme comunque da destinare ad una contribuzione sociale incapace di generare un trattamento pensionistico può determinare un volano di sviluppo non indifferente, accrescendo il numero di giornate lavorative e di repliche altrimenti impossibil da affontare.
Questo varrebbe chiaramente solo per le compagnie non finanziate dallo stato né varrebbe per quelle che hanno un’attività tale da garantire un ammontare di giornate lavorative per i propri dipendenti pari al minmo dell’anno pensionistico.
Inoltre, questo stato di cose potrebbe essere consentito a ciascuna compagnia per un periodo determinato (tre, quattro o cinque anni al massimo, ad esempio) dopo il quale, se il meccanismo sarà stato sfruttato in maniera adeguata, l’attività nel suo complesso sarà cresciuta e avrà creato le premesse per un volume di giornate lavorative tale da potersi avvicinare al compimento del benedetto anno pensionistico.
Soldi che appartengono di diritto ai lavoratori, a noi lavoratori dello spettacolo, e che non torneranno mai nelle nostre tasche: paradosso teatrale che penalizza la nostra categoria precaria per natura ma ancor più precaria in questo periodo di azzeramento e svilimento.
I contributi hanno un altissimo peso specifico su una singola produzione e molto spesso il voler essere pienamente in regola significa letteralmente non poter andare in scena.
Questo meccanismo può rappresentare una compensazione ad una palese ingiustizia e contemporaneamente uno stimolo forte al reinvestire tali cifre per creare un circolo virtuoso.
La domanda è semplice.
Si può andare in scena in uno spazio da 40 o 50 posti a sedere e, viceversa, in uno da 600 o 700 ed essere soggetti alla stessa normativa relativa ai contributi e alle agibilità?
Senza scendere nello specifico e a prescindere dall’evidente differenza di paga che viene poi ufficialmente pagata al lavoratore (attore o tecnico che sia), dal cosiddetto minimo sindacale alle paghe enormi percepite dai maggiori nomi del teatro nazionale, a parità di retribuzione il versamento contributivo è lo stesso che si vada in scena nel più grande e rinomato teatro della città o nella più angusta cantina teatrale.
Ora, se questa domanda è semplice e sorge spontanea, la risposta è complessa perché chiaramente tocca i diritti dei lavoratori, diritti conquistati in decenni di lotte e rivendicazioni.
Tuttavia, la prassi che tutti noi ben conosciamo ci fa vittime e aguzzini assieme di un sistema che più ipocrita non può essere.
L’invito a discutere sulla congruità di questo meccanismo è fondamentale per determinare un cambiamento concreto nelle modalità di produzione teatrale.
Anche se non si riuscisse davvero ad incidere, un pensiero diffuso in grado di creare idee (e magari utopia) e spunti sui quali ragionare e immaginare non può più essere procrastinato.
Non si può più lasciare inalterato lo stato delle cose perché così com’è è… niente.
Il teatro dell’assurdo lo conosciamo bene ma dobbiamo renderci conto che il sistema che ci determina ha reso noi stessi, e le nostre stesse vite, interpreti assurdi di una realtà fantasmatica nella quale quasi nulla ha senso e il teatro ha, dopo secoli di incidenza reale sulla società, abdicato e derogato da quello che è sempre stato il suo compito: far pensare, creare dubbio e spingere all’analisi.
Se noi stessi siamo incapaci di tutto questo nella pratica quotidiana della nostra attività, ben difficilmente il teatro recupererà il terreno perso.
GIOVANNI MEOLA
(dir. art. Virus Teatrali)