Chi (o cosa) uccide Macbeth?
A Galleria Toledo una riproposizione del celebre dramma ad opera di Laura Angiulli.
L’intuizione prevedibile è l’inesauribilità di Shakespeare, le infinite chiavi di lettura cui si presta. Sono poche le righe della drammaturgia del Macbeth che non si meritino l’aspirazione a ricordarle a memoria, a scopo di citazione; e forse per quelle poche ci si riferisce alle note di scena.
È proprio per la grandezza riconosciuta che non si può biasimare chi lo scelga, anzi, si deve a questo “chi” un plauso prioritario per il coraggio di confrontarsi con enormità di questo tipo.
Laura Angiulli, la regista di questo personale adattamento dall’originale shakespeariano intitolato Macbeth, esiti da una battaglia, in scena a Galleria Toledo, è una donna di teatro, consapevole degli strumenti necessari per il raggiungimento dei propri scopi. Questo primo fattore è evidente sulla base della padronanza con la quale riesce a mettere in piedi un ambizioso collage della scrittura personale allegata all’originale: la drammaturgia è equilibrata e l’adattamento non la intossica. È già, di per sé, gran cosa.
Nella messinscena il peso è iniquamente distribuito a beneficio di un’analisi attenta dell’approccio alla scalata al potere dei due coniugi Macbeth, rapportato alla reazione successiva che su di essi scatena. il lavoro fatto sugli attori, dagli attori, evidenzia queste dinamiche per mezzo della loro fisiognomia e del loro posizionamento sul palco. La viltà di Macbeth (Giovanni Battaglia) non può passare inosservata perché significherebbe essersi coperti gli occhi e non aver notato la curvatura perenne della sua schiena, erede della sottomissione al fato cui egli devolve a pieno le proprie speranze di riuscita, di scalata al potere; e poi la fierezza di lady Macbeth (Alessandra D’Elia), ritta, ferma e volutamente scultorea nelle movenze, una donna che sceglie per lei e per suo marito, architetta il crimine così come il pentimento, con l’ultimo simbolico gesto di scegliere, per la sua stessa vita, le sorti.
I due si completano perché c’è l’impressione che il fato riesca a interagire fluentemente con archetipi morali di questo tipo: la vigliaccheria malleabile dell’uno e la fermezza che lo plasmi e, in un certo senso, lo condizioni dell’altra. E Stefano Jotti, interprete di Banquo, collocato geometricamente in secondo piano sul palco, è l’equivalente redento di Macbeth; pare che stia fuori dalla scena perché dotato della facoltà d’osservarlo e giudicarlo per i suoi misfatti. Macbeth lo fa uccidere, com’è noto, ma verrà schiacciato dall’apparizione del fantasma di Banquo, durante la scena proverbiale del banchetto nella quale si percepisce, in tutta la sua forza, l’impalpabilità e quindi l’inenarrabile impotenza che l’incontro col senso di colpa possa generare in un uomo. Vederne Macbeth divorato e condividerne l’insostenibilità è un indubbio sintomo di riuscita della messinscena. È il senso di colpa stesso a sfinirlo lentamente, placando i suoi entusiasmi, guidandolo ad una morte cui MacDuff non fa che dare il colpo di grazia formale.
I tre interpreti, già protagonisti del primo “episodio” di questa trilogia del male Shakespeariana, il Riccardo III, si distinguono per una grossa partecipazione e compenetrazione nei confronti dei loro ruoli, a dimostrazione del fatto che Shakespeare rappresenta, per ogni attore cui capiti di immergersi nelle sue opere, un evento strutturale per il percorso professionale; Alessandra D’Elia e Stefano Jotti sono impegnati anche in ruoli plurimi. Ed è probabilmente questo ultimo fattore, sole tre unità per più personaggi, a muoverci verso un dubbio, o qualcosa che somigli ad una critica: l’idea che, a dispetto di quanto annunci la sinossi, la successione degli eventi non sia del tutto chiarificata, penalizzando coloro i quali non abbiano ben impressa la trama. Non ci sono salti o omissioni, più che altro accelerazioni narrative che corrono il serio rischio di tagliare fuori una parte degli spettatori, ai quali va indulta la colpa di non conoscere il Macbeth proprio per la scelta coraggiosa di andare a vederlo a teatro: bisognerebbe fare qualche sforzo in più per ingraziarseli, conquistarli e non perderli.
Un elogio, infine, va fatto anche al lavoro sulle luci di Cesare Accetta e sulle scene e i costumi di Rosario Squillace, meditati ed essenziali, mai invadenti, sono di vitale importanza per le atmosfere.
In scena sino a domenica 11 marzo.
Andrea Parrè
Galleria Toledo
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