Quando da Shakespeare si giunge fino a noi…
Al Teatro Elicantropo, in scena fino a domenica 11 marzo, il ricordo del male e la sconfitta vittoria della vendetta.
Il ricordo può produrre, in generale, due stati differenti: la nostalgia di un passato dolce, da rievocare e tenere con sé, oppure il manifestarsi della nevrosi, dell’ossessiva memoria degli atti violenti, che lacerano e tagliano via le radici.
Titus. Studio sulle Radici, della torinese Piccola Compagnia della Magnolia, con la regia di Giorgia Cerruti ci proietta in un’atmosfera spettrale, per far rivivere i fantasmi di dentro, le voci che flebili non possiamo più ascoltare, le mani che tenui non possiamo più sfiorare.
C’è un buio profondo in sala, fa freddo quando arriva, passo claudicante e lume in mano, la maschera, di legno e generatrice d’una fobia ancestrale, su un corpo scosso da respiri affannosi e tremori; l’uomo si genuflette dinanzi a un semplice vaso di fiori, d’un giallo luminoso che fa pensare al sole, irrora la pianta e va a sedere. È un prologo e, al tempo stesso, una condanna.
Si spegne la luce, una voce di bimba sussurra un countdown che turba: cosa produrrà l’attesa?
Sulla seggiola ricompare un uomo nuovo, smascherato, l’attore Davide Giglio, il nostro Titus che ride, ride a crepapelle ma con un tono doloroso, ferito; e mentre ride aziona un walkman, elemento di accelerazione della piece, affinché la voce proveniente dall’oggetto racconti i dolori ineffabili e confessi i motivi remoti dell’assenza di chiarore nel ridere del protagonista.
Da qui Shakespeare si interseca al racconto, lo indirizza da lontano, sovrapponendo il viso alla maschera e, passo a passo, svela “la mappa di dolore” che è il corpo, con i suoi limiti, struttura fragile e dal destino segnato.
Ma il corpo, in realtà, non è altro che una scelta: per Titus l’unica opzione di vita è la vendetta, che deforma l’aspetto e l’interiorità, rappresentando la sola modalità possibile per mettere ordine, e pertanto la sua recitazione è segnata da cambi d’umore fulminei e confusi, antinaturalistica nella eccessiva caricatura di toni, ma necessaria per estrarre dal patimento la quintessenza rappresentabile sulla scena.
La giuntura tra maschera e personaggio è lì, per terra, in un telefono.
Il telefono che collega Titus e Willy (ovverosia William Shakespeare), il primo che chiede a quest’ultimo dove siano finite le sue radici, rappresentano squarci d’uomo nella fictio drammaturgica, fendono il protagonista e ci ricollegano a colui il quale, all’inizio, era sotto la maschera: è il legame che corre tra loro il vero protagonista sul palco.
Il proposito vendicativo di Titus Andronicus ha la meglio, risulta vincitore; ma nel suo trionfo si attua l’esaltazione dell’antiuomo, la cancellazione di ogni sorta di solidarismo e perdono, la cancellazione di radici di matrice familiare, ma di quelle umane che uniscono l’uomo all’uomo.
È un delirio dell’orgoglio e di valori esasperati, risposta al male ingiustificato e ingiustificabile.
Titus deve morire, rasserenato dalla lettera d’amore donatagli da sua figlia.
Una figlia che, ancora una volta, ci carezza con il già noto conto alla rovescia.
Un conto alla rovescia che ci restituisce una maschera, meno ignota, e il sogno di una figlia che non c’è ma che, forse, rivive ogni giorno attraverso la finzione scenica e che, dolce, con i suoi numeri alla rovescia, insegna ad un padre la difficile via del perdono.
Antonio Stornaiuolo
Teatro Elicantropo
Via Gerolomini, 3 – Napoli
Info: 081 29 66 40
e-mail: teatroelicantropo@iol.it
E’ una bella recensione complimenti!
L’ho psettacolo l’ho visto a Milano e condivido pienamente.