Gramsci, cronache teatrali dall’«Avanti!»: Bataille e Cavacchioli
Cronache teatrali dall’«Avanti!», 1916-1920
Sorelle d’amore di Bataille all’Alfieri
Amore, dolcezza, virtú, generosità, tenerezza, candore: sono queste le doti che campeggiano nei quattro atti di Sorelle d’amore di Henri Bataille. Ma quale passione vivifica queste qualità, quale vita interiore attiva e operante? Nessuna. Esse rimangono inerti, non hanno una giustificazione, sono nient’altro che la monotona descrizione letteraria dei rapporti esterni, di avvenimenti che si succedono, perché le parole li riferiscono nella loro banalità vuota, d’una vuotaggine iridescente come nelle bolle di sapone. Vediamo muoversi e parlare fisicamente una donna: Federica; un essere tenue ed evanescente che ha marito e una figliuola e ama Giuliano. Per sei mesi, per un anno, per due anni, Giuliano attende che l’amore diventi realtà, si conceda alla passione; Federica ama Giuliano seriamente (l’autore lo afferma in modo perentorio), ma non vuole materializzare l’amore. E per quattro atti è un rincorrersi della materia e dello spirito, della carne e dell’anima, nel quarto atto si intravede anche un letto, un materialissimo e volgarissimo letto, ma Federica se ne va e sul letto lascia una rosa, e lascia un bel discorso che dovrà consolare Giuliano, che dovrà indirizzarlo a pensieri e azioni alte e nobili. Tutto ciò è brutto e anche antispirituale, è falso artisticamente ed è falso moralmente, perché non è vivo, perché una tale virtú esangue e snervata rasenta la turpitudine. La commedia di Bataille è una mera esercitazione letteraria, che può essere assunta come documento storico di grande corruzione e di irrimediabile scadimento dei costumi. L’esaltazione fredda di un atteggiamento sentimentale come quello di Federica può nascere solo dopo una stanchezza fisica prodotta dalla voluttà professionale. La madre di Amore è piú bella e piú morale delle sorelle di Amore.
(20 marzo 1920)
L’uccello del paradiso di Cavacchioli al Carignano
Il teatro modernissimo italiano (Pirandello, Antonelli, di San Secondo, Veneziani… e Cavacchioli) risulta in gran parte da un piccolo errore: questi autori, nello studio della belletristica inglese, volendo arrivare a Bernard Shaw, si sono smarriti nel dedalo delle avventure di Sherlock Holmes. Lo stampo della loro fantasia è da ricercarsi nella vasta fronte di mister Conan Doyle, divenuto baronetto per meriti letterari; in ogni loro commedia l’intrigo è ordito per lumeggiare le sublimi facoltà di intuizione critica di un poliziotto dilettante dello spirito ovverosia della psiche umana: le avventure ideali si connettono per ragione filata, si sviluppano con ritmo sicuro, si intrecciano, si accavallano, si mescolano, unite sempre da una sottile bava di ragno, sulla quale un folletto danza gioiosamente, caprioleggiando, rischiando triplici e quadruplici salti mortali, per ricadere sempre in piedi, gentile, fresco, ilare, smorfieggiante a destra e a mancina per esporsi e proporsi all’ammirazione universale.
È una fantasia legnosamente arida, che scoppietta e frigge per una goccetta d’olio rovesciata dalla lucerna, alla quale si compulsarono gli articoli sulla filosofia delle dame. Una fantasia matematica, una fantasia di ingegneri che sanno il fatto loro, una fantasia da curiosi di sapere come la fantasia era fatta, i quali pertanto l’hanno recisa per notomizzarla e veder com’era fatta.
Divertono, pur annoiando un po’ per la pedanteria, della quale sono figli non degeneri. Divertono e interessano, perché, insomma questi giovani adempiono pure a un compito: rendere intollerante la vecchia moda del teatro romantico da appendice, sfrenare una irrequietudine interiore e corrodere i sedimenti di sugna inacidita che facevano grossi i cuoricini piú microscopici. Ma non sono che uccelli di paradiso impagliati o che saranno impagliati tra breve dagli archivisti delle biblioteche teatrali; non godono della libertà, sono legati a un cordino come i rospi che divertono i monelli; sbalzellano, goffi alquanto per la finzione della libertà, e ricadono molli. È difficile analizzare le loro commedie, senza dilungarsi sazievolmente; non si può essere severi, perché esse sono una istituzione del gusto, che non ha ancora esaurito il suo ufficio storico. Sono quasi sempre ben eseguite, perché domandano studio e lavoro e spoltriscono i facili schemi irrigiditi degli attori. L’uccello del paradiso, confessione (!) in tre atti di Enrico Cavacchioli, ha dato modo al Betrone, alla Melato e agli altri bravi artisti della compagnia Talli di determinare una esecuzione che vale in se stessa.
(20 marzo 1919)
Antonio Gramsci