Gramsci, cronache teatrali dall’«Avanti!»: Martoglio e Martini
Cronache teatrali dall’«Avanti!», 1916-1920
U’ riffanti di Martoglio all’Alfieri
I tre atti nuovi di Nino Martoglio non sono che un seguito di bozzetti scenici senza intreccio drammatico, senza alcun approfondimento di carattere, senza altra pretesa che non sia quella di dare ad Angelo Musco il modo di creare una macchietta esilarante, perché esteriori e solamente fisiche sono le possibilità rappresentative della commedia. U’riffanti è un traforello di piccola levatura, un tenitore del lotto clandestino, che riesce a salvarsi dalle grinfie della polizia, dando modo a un delegato di PS di rintracciare gli autori e la vittima di un sequestro di persona: la chiave del delitto è data dal numero della cabala, numero che i superstiziosi banditi hanno costretto la vittima a dare, non pensando che potevano diventare termini di corrispondenza segreta. La commedia è stata applaudita, e ha fatto molto ridere per opera dell’arte di Angelo Musco e delle sue sempre nuove capriole e smorfie, esilaranti solo fino a un certo punto.
(21 marzo 1917)
Ridi pagliaccio! di Martini all’Alfieri
Giovanni Schiffi, in arte Flick, è un uomo che soffre. Ma questo dolore, questa sofferenza atroce del pagliaccio Flick, dipende da una mera condizione del suo essere fisico; può suscitare la pietà, come la susciterebbe l’esposizione in palcoscenico di un lebbroso, di un cieco, di un qualsiasi infelice accasciato sulla sua sventura che gema e ululi e si contorca. Il dramma (!) di Fausto Maria Martini è costruito coi procedimenti del Grand-Guignol; l’umanità, come poesia, come spirito, come intelligenza che supera e comprende l’essere fisico, vi è assente. Ci troviamo dinanzi a un referto da neuropatologo, un tale che non può ridere, che non può godere, che non può vivere, a una fontanella di lacrime ambulante. È un pagliaccio; è un professionista del riso; ci sarà un contrasto, il dramma nascerà appunto da questo contrasto mostruoso. No, l’autore non pone il dramma in ciò; è un incidente questo contrasto, non è essenziale motivo, e forse non potrebbe esserlo perché la professione di pagliaccio a quanto si sappia non è inerente alla natura umana, non attributo necessario di una passione o di un essere. Flick si domanderà perché, a lui, innocente, sia toccata una tale sciagura, interrogherà la natura, interrogherà gli uomini, si rivolgerà alle stelle e alla luna, magari, per sapere la ragione, maledirà, imprecherà, diverrà patetico rimprovero dell’inconoscibile, del destino, di Dio, del caso perverso che lo ha cosí foggiato, che lo ha condannato a essere l’ombra della vita, senza amore, senza sorriso, senza contrasto tra la gioconda risata e la amara lacrima. Niente di tutto ciò, assolutamente nulla; Flick è un mero referto da gabinetto medico, Flick ha per anima una cipolla lacrimogena, non una sorgente di poesia e di dolore umano.
I contrasti sono ottenuti con mezzi esterni; l’uomo che piange si incontra con l’uomo che ride, che ride senza motivo come egli piange senza motivo: due maschere s’incontrano presso uno specialista e si prendono sotto il braccio, iniziano una vita comune; si completano? nasce da questo contatto un principio di vita? Neppur questo. Una donna è coi due; essa è la consolatrice di Flick, a quanto Flick afferma; ma non è amata da Flick, non determina nel suo cuore un senso, un moto che possa svolgersi in una dialettica e condurre a una evasione dal cerchio chiuso della mera sensibilità animalesca del soffrire. L’uomo che ride guarisce, lui, nell’amore, si porta via la donna nella gioia che non è piú secco scoppiettio d’ilarità effimera; Flick non soffre per ciò, il suo dolore non si modifica, il dramma rimane puro Grand-Guignol, esposizione del meccanico decomporsi di un essere umano per reazioni fisiologiche, a grande effetto, rozzo verismo senza soffio di poesia. L’intrigo è preparato per lo scioglimento; lo scioglimento è a grande effetto, e l’effetto è riposto nella virtuosità dell’attore.
Il prof. Gambetta, neuropatologo, aveva consigliato a Giovanni Schiffi di recarsi ad ammirare il pagliaccio Flick e di abbandonarsi alla giocondità che il pagliaccio dispensava nella sala. Ed ecco che Giovanni Schiffi ricerca in se stesso il riso, in se stesso (ohibò, non pensate che il Martini abbia ricavato da questo motivo una ricerca dell’interiorità) riflesso negli specchi, e danza e folleggia, e ride e si uccide, pugnalandosi, sempre nient’altro che maschera senza anima, senza poesia, senza un briciolo di umanità spirituale.
(21 marzo 1919)
Antonio Gramsci