Occidente Solitario – Orizzonte sconosciuto
Dalla penna di McDonagh e con la regia di Puerta Lopez, in scena al Nuovo una “commedia nera” (?).
È molto difficile riuscire a capire quale sia stata la strada interpretativa, perseguita dalla regia, per mettere in scena questo Occidente solitario, opera scritta da Martin McDonagh.
È una commedia interessante, ha degli spunti, delle cose da dirci che vanno oltre la risata, come ogni commedia che rispetti questo appellativo dovrebbe fare. Tutto questo sulla carta.
Che vuol dire una sola cosa: la pratica ha estrapolato dalla teoria solo una manciata di elementi, scordandone altri, che però sarebbero stati funzionali.
Coleman e Valene sono due fratelli, vivono in un luogo imprecisato, probabilmente un piccolo paese, in un tempo ancora più indefinito – che della contemporaneità ha solo citazioni pop e note di costume, nulla più – contraddistinto da caratteri di cinismo e monotonia piuttosto acuti, anzi normali, tipici di un piccolo paese. In un villaggio non può mancare un prete: in linea col cinismo costui tenta di vestire i panni della decana figura cordiale e familiare dell’uomo di chiesa del piccolo centro, ma al contempo non riesce a tenersi lontano dall’alcol e a risolversi dalla mancanza di quella capacità persuasiva e purificatrice che il suo ruolo dovrebbe prevedere. Avrebbe dovuto fare un altro mestiere. Lo capisce quando una serie di fatti sanguinosi si susseguono al villaggio, fatti dei quali si assume quasi la responsabilità. Una ragazzina, ancora a metà strada tra l’innocenza e la devianza, commercia illegalmente alcolici per indirizzare i guadagni ad un utilizzo inaspettato.
I due fratelli si odiano, il prete prova a mediarne gli alterchi e crede che la loro convivenza pacifica sia la sola ancora di salvezza, l’unico contrappeso che ancora gli eviti il tracollo. Si ucciderà quando saprà che ha già fallito.
L’odio, i due fratelli, lo dimostrano apertamente, interpretandolo in maniera del tutto a-problematica, al pari di come trattano le morti che si susseguono al villaggio. Sembra il fattore più coinvolgente, il più insolito. In effetti è il fattore dominante.
Nel primo atto si riesce ad alleggerire dualismo fraterno – comico ma onnipresente – con l’azione degli altri due personaggi, anche per la sola presenza di figure diverse in scena.
La seconda parte è la narrazione del tentativo posticcio, e non spontaneo, di risolvere l’antagonismo attraverso la sincerità, l’ammissione di colpa, la dichiarazione dei propri dispetti reciproci. Ma è un tentativo che si trascina stancamente, senza i dovuti cambi di tensione, verso il nulla. Ecco qua il secondo ed ultimo elemento di interesse: il dialogo prolungato tra i due si arrovella in un percorso che pare portare ad un traguardo, cioè la risoluzione da parte dei due fratelli dei loro conflitti, mettendo infine lo spettatore dinanzi alla presa di coscienza che il traguardo è semplicemente il punto di partenza: l’odio.
Sono due tappe rilevanti cui giungiamo per inerzia, la regia (Juan Diego Puerta Lopez) si scorda di guidarci nella visita.
In controtendenza, il disegno luci di Sergio Ciattaglia, unito alle scene di Bruno Buonincontri offre, per certi versi, la possibilità di un percorso facilitato.
Sorge spontaneo chiedersi: basterà dirci che siamo in Irlanda per portarci in Irlanda?
Come mai si sceglie di lasciar agire, piuttosto indisturbata, l’inflessione dialettale romanesca degli attori, quando questa non ha nessuna attinenza? E soprattutto: se si tratta di una scelta di regia, perché allora il suddetto dialetto non viene completamente sciolto dalle sue briglie, dimostrando, almeno, di aver fatto una scelta?
Claudio Santamaria fa il suo dovere, è divertente perché forse lo è anche fuori dal palco, però non sorprende. Filippo Nigro merita invece una nota di merito in più, vista la prova fisica di sottoporsi all’utilizzo di un timbro vocale più alto del suo. Per Massimo De Santis e Nicole Murgia vale la conclusione che si trae per la rappresentazione nel complesso: non si è capito bene in che direzione si volesse o si dovesse andare.
Perché i verbi servili, spesso, hanno valore sinonimico. Anzi, meglio dire che si confondono.
In scena sino a domenica 1 aprile.
Andrea Parré