“Le ore della mia giornata”, ovvero la vita quotidiana che si fa teatro
Ispirato ad una storia vera, il monologo affronta il grande tema dei diritti umani attraverso la figura di una piccola grande donna operaia.
Giallo, rosso, blu: i colori dei fili che si tessono, annodano, scorrono nel telaio sono accesi, sgargianti eppure intessono una vita che è tutt’altro che vivida. Maria Stornaiuolo è una operaia, lavora in una maglieria di San Giuseppe Vesuviano e per garantirsi e garantire una vita dignitosa a sé e alla sua famiglia, lavora sin dalle prime ore del mattino, prima svolgendo le abitudinarie faccende domestiche, poi recandosi in una piccola fabbrica gestita da cinesi.
Il viaggio che la conduce da casa al posto di lavoro è lungo, attraversa una vasta periferia e si specchia nei volti dei tanti pendolari con cui condivide il tragitto, nelle cui vite entra quasi con naturalezza, scambiando con loro racconti, umori, problemi e le piccole gioie quotidiane.
Maria è moglie e madre, e la sua semplicità, schietta ingenuità, spontanea intelligenza la rende un attenta osservatrice della realtà; di quella realtà che si dipana dinanzi ai suoi occhi con ripetitività, stanca monotonia, eppure ogni giorno arricchita da nuovi stati d’animo, nuovi pensieri, altre preoccupazioni. Reagire alle difficoltà economiche, trovare ogni mattina nuova slancio per affrontare una nuova, intensa giornata richiede forza, capacità di adattarsi, di sopportare, ovvero ciò di cui Maria è per natura dotata suo malgrado: in passato imprenditrice tessile, ora, invece, si trova ad essere dall’altra parte, a ricoprire un ruolo subalterno, comandata da padroni che vengono da lontano, che parlano una lingua non corrispondente ai propri tratti somatici, i cui figli crescono affidati alle donne del luogo per mancanza di tempo.
È, così, che Italia e Cina appaiono vicine come non mai; che due luoghi geograficamente distanti si ritrovano a mescolarsi e a far dipendere vita e guadagno l’uno dall’altro senza soluzione di continuità. Che la vita si ritrova a scorrere inesorabile, anche per i piccolissimi figli degli operai, tra i rumori assordanti dei macchinari, tra ammassi di pezze e vestiti, mentre la luce artificiale brucia gli occhi impegnati ininterrottamente a cucire prima che il sole tramonti definitivamente e solo l’arrivo della sera riesca a mettere fine ad un interminabile turno di lavoro.
Ma l’imprevedibile, pur in questo ingranaggio all’apparenza indistruttibile, esiste e si verifica e se ha il nome di un bambino di soli pochi anni che cade a terra esanime, tra polvere e rocchetti di cotone, il boato sordo che si sprigiona rompe i timpani più del rumore ferroso delle cucitrici e costringe a fermarsi. Ad alzare lo sguardo, uscire dalla “gabbia” nella quale si è fino a quel momento vissuto ed imporsi di uscire fuori e correre, correre, correre per impedire che il filo della vita venga reciso.
È all’immagine delle Parche mitologiche, infatti, che la mente va mentre in scena si consuma la tragedia attraverso le parole della protagonista: così come esse stabilivano il destino di ognuno filando il tessuto della vita, stabilendone la durata e decidendone implacabile la fine, allo stesso modo sembra faccia Maria, e chi come lei vive la medesima condizione, che intreccia e taglia i fili della propria vita ogni giorno, ogni ora, ed assiste impotente alla fine di quella altrui…. senza che il caffè con tre cucchiaini di zucchero preso la mattina prima di entrare in fabbrica riesca ad illuderla che la vita è meno amara di ciò che è realmente.
Intensa, emozionata, perfettamente calata nella parte a cui regala spontaneità, fragilità, veridicità, Tina Femiano, sola in scena, fa vivere con trasporto a chi l’ascolta uno spaccato di vita forse lontano, conosciuto solo indirettamente eppure più vicino di quanto possa immaginarsi. E le parole che compongono l’incessante monologo scritto da Ciro Marino attingendo da una realtà a lui molto vicina, pur essendo accompagnate da una minimale ma efficace scenografia (sebbene in alcuni momenti insidiosa), lasciano intravedere ogni cosa da lei descritta, ogni emozione da lei vissuta, impedendo di cogliere il momento in cui finisce l’attrice ed inizia la donna in un perfetto connubio tra realtà e finzione.
Le ore della mia giornata, diretto da Carmen Femiano che opta per una regia che nella sua ricercata essenzialità molto valorizza il testo, sarà in scena al Teatro Elicantropo fino a domenica 1 aprile.
Ileana Bonadies
Teatro Elicantropo
Via Gerolomini, 3 – Napoli
Info: 081 29 66 40
e-mail: teatroelicantropo@iol.it
La prima recensione. Attenta e puntuale, come tutte quelle di Quarta Parete. E’ davvero gratificante. La mia regia letta a tutti i livelli possibili. Sono felice che si colgano tutte le metafore dei fili, della struttura rigida e insidiosa, delle Parche… Grazie. Sono proprio contenta. Alla prossima. :)