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Al Teatro Elicantropo spazio alla danza contemporanea e al teatrodanza con la rassegna “Oltre la linea”.

Conclude la stagione teatrale dell’Elicantropo la rassegna Oltre la linea, spazio dedicato alla danza contemporanea ed altre arti, che dal 10 al 13 maggio ha visto alternarsi in scena, rispettivamente, la Compagnia giovanile Ivirdanza, la Compagnia Akerusia danza insieme alla Compagnia Excursus, ed infine la Compagnia Uroburo teatrodanza.

La rassegna è proposta dall’Associazione Itinerarte che promuove la danza come massima espressione del sentimento nella contaminazione con altre arti vicine come la pittura, la poesia, il teatro e la musica.

La danza trasforma i luoghi che abita in territori magici, in cui tutto si muove per rifare la realtà, attraverso il gioco delle forme, delle luci, delle improvvise corse e ricadute dei corpi in movimento espressivo. E la scena, divisa in due spazi e due momenti distinti nello spettacolo Il luogo che non c’è (posto a chiusura della rassegna), diventa prima un grande carillon e poi la tela tridimensionale in cui si svolge un movimento impossibile: quello delle figure dipinte.

«Dipinte nella mia mente», precisa la coreografa-regista Daniela Mancini, «nate da una visione, come in un sogno ad occhi aperti». Lo spettatore attraversa, nella suggestione del sogno ad occhi aperti, i piccoli mondi offerti dalla danza delle tre muse: nel primo scenario, la stessa Daniela Mancini con Antonella Migliore e poi, nel secondo, entrambe accanto a Laura Ferrario; ed è piacevolmente intrattenuto dai movimenti dei corpi, tra le chincaglierie di ogni tipo disseminate sulla scena da Lia Cerullo, gli attrezzi e gli strumenti tipici dell’arte di strada, dal mimo alla performance circense, a cui il primo movimento attinge allegramente nel continuo sventolare di ventagli colorati, stoffe, fiori e coppe infuocate.

La stanza delle bambole mette in campo l’esperienza e lo spontaneismo dell’arte di strada da cui sono state formate le danzatrici e porta in scena i modi e i movimenti di personaggi, «nati in altri luoghi», ci racconta la regista, «e trasportati sulla scena, come aveva fatto Chaplin con il suo Charlotte». Si animano, così, attraverso la musica, nello spazio-foyer del teatro, bambole dal procedere incerto e rischioso, sempre sul punto di trasformarsi in donne o di finire in pezzi, e ciò genera una tensione drammatica inattesa, quasi inconsapevole nell’alternarsi di azioni, atteggiamenti e movimenti.

Una breve pausa, riempita da immagini proiettate e da una voce fuori campo, introduce gli spettatori alle nuove suggestioni visive che saranno proposte nel secondo movimento: Quadro capovolto. Gli spettatori sono invitati ad accomodarsi sugli spalti della sala del teatro, di fronte ad una scena semibuia, allestita con sedie di plastica bianche ripiegate e disposte in diagonale e pochi altri oggetti posizionati disordinatamente in scena: un giornale, alcuni veli, una maschera, un cesto pieno di stoffe, un fiore che pende dal muro. Le luci, che nel primo scenario non avevano avuto vita, giocano e danzano insieme alle performers sottoforma di piccole torce-laser colorate, in sostituzione della musica, giusto il tempo necessario alle danzatrici di completare la pittura del quadro, disponendosi in fila tra le sedie sul pavimento. Sono raggomitolate sul fianco come i piccoli sassi neri su una spiaggia abbandonata. Ancora una volta è la musica che le rianima, insieme al gioco delle luci colorate che le picchiettano come farebbe un pittore dei macchiaioli contaminato dall’arte di Bacon. I corpi, infatti, si contorcono e si confondono, emergono a scatti dalla bidimensionalità del pavimento, fino a trovare una definizione più nitida nella luce dei fari sulle sedie e cominciano a danzare incontrandosi, riconoscendosi, riscoprendo la funzionalità delle braccia e della gambe insieme, intrecciandosi, creando piccoli momenti di quotidiana intimità: come nella lettura del giornale, quasi a cercare un ancoraggio alla realtà del transeunte a cui la fissità del quadro le preclude per l’eternità.  Svolgono composizioni più strutturate con l’ausilio degli oggetti in scena. Tornano le stoffe colorate ed i ventagli, emergono nuovi oggetti più marcati nelle caratteristiche: il giornale, le mele; i corpi diventano quelli di sorelle, lavandaie, streghe, fate, spose che muovendosi con la musica, si spogliano e si rivestono; sempre con grande scioltezza e spontaneità, come se ognuna curasse da sola la propria danza lasciando andare liberamente il corpo alla musica e, in questa libertà, incontrasse la danza libera delle altre per strutturare nuovi movimenti e rappresentazioni, sull’onda delle sensazioni e delle suggestioni dettate dal momento. Vince anche nel secondo movimento l’estetica visiva del puro intrattenimento, l’allegria della creatività, del caos creativo che ci ha avvolto lasciandoci però il desiderio inappagato di restarne travolti. Il secondo movimento si chiude con la configurazione del quadro iniziale che però stavolta è stato capovolto dal passare del tempo: «lo zenith è mutato» afferma la regista.

È trascorso del tempo da quando queste figure hanno preso vita e la disposizione capovolta dei corpi nello spazio è l’unica traccia che abbiamo per sapere che tutto ciò a cui abbiamo assistito è accaduto realmente.

 

Stefania Nardone

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