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Al Napoli Teatro Festival lo spettacolo di Davide Iodice apre la riflessione intima sull’eredità difficile del nostro Paese e sul futuro da consegnare alle nuove generazioni.

Foto Lucia Dovere

Ieri si è fermato il cuore del tempo nel quartiere antico della Vicaria con le storie minime e reali di una manciata di uomini e donne al San Ferdinando. Attori e attrici insieme a non attori e non attrici particolari: i loro genitori, padri e madri, protagonisti involontari di quella parte di storia italiana che non è stata scritta dalle loro voci. Ed è per questa ragione che il regista, Davide Iodice, ha finito per elaborare il suo spettacolo come una “autobiografia sentimentale dell’Italia”, perché, nel corso di un laboratorio durato circa un anno, questi uomini e queste donne gli hanno aperto la porta delle loro case, dei loro vissuti esistenziali. Si sono proposti insieme ai loro figli come frammenti di famiglie, nel frammento delle loro vicende intime e sociali ed hanno consentito al teatro di Iodice, alla sua domanda sul futuro di un paese da consegnare alle nuove generazioni, di sciogliere i loro vissuti nella condivisione di un percorso che ha ricostruito originalmente i loro rapporti e legami all’interno della simbologia dell’arte, all’interno della “stanza dei giochi” della scena. Diventa ancora più importante allora menzionarli tutti: Ilenya Caleo e suo padre Paolo, Davide Compagnone e sua madre Anna, Alessandra Fabbri e suo padre Alessandro, Tania Garibba e sua madre Luisa, Stefano Miglio e suo padre Giuseppe (il quale – lo apprendiamo attraverso una lettera al pubblico del regista inserita nel programma di sala – per problemi di salute, non ha potuto partecipare allo spettacolo. Il regista gli ha dedicato uno dei lunghi applausi finali con la speranza di una sua rapida guarigione) e il danzatore Mattia Castelli.

Le madri e i padri, infanti alla scena, si sono lasciati attraversare dallo sguardo del teatro, nei loro volti fatti di rughe vere, di ricordi e racconti, nei loro corpi fatti e sfatti dal lavoro di casa, di fabbrica, dall’insegnamento e dal lavoro impiegatizio, nelle loro voci riscaldate da accenti e inflessioni regionali e si sono scoperti testimoni e attori involontari delle trasformazioni di un paese; hanno accettato di confrontarsi con i figli e le figlie chiamati ad abitare oggi la scena confusa, disgregata, plurale, sconvolta dell’interno borghese italiano, fatto di migliaia d’interni appena illuminati, intuibili, fuori dal teatro, solo dall’esterno, nell’omologazione delle finestre. Ma può il teatro entrare ancora così dentro al corpo delle cose, dei fatti e delle persone per mostrarli e metterli a contrasto con delicata insistenza, senza il timore che essi risultino in definitiva virtuali e artificiosi come l’umanità e le storie raccontate nei reality, nelle fiction e nei talk show dello spettacolo e dei politici? E’ un rischio che il regista ha forse sentito il dovere di correre guidato dall’amore per chi viene dopo.

Fa riflettere, infatti, la scelta di genitori non attori per figli e figlie di scena. Fa pensare ad una realtà contemporanea da vivere nell’artificio della formula spettacolare, fa pensare a uomini e donne, quelli di oggi, fuori dal tempo e dallo spazio, inconsistenti come le ombre, senza identità, senza orientamenti valoriali ma chiamati all’azione, chiamati al disperato ruolo di umani, di abitatori del mondo. Sono i figli attori a portare le maschere e a danzare come marionette, a rimanere creature fuori dalla storia, alla ricerca di una radice e di un racconto, di una testimonianza possibile da lasciare in eredità. E, certo, questo segnala anche il difficile rapporto tra le generazioni. Chi precede, sogna, immagina, progetta, cerca di controllare e instradare chi segue. È chiamato a trasmettere norme e valori culturali e sociali, è chiamato ad educare e può finire per ancorarsi ai propri riferimenti o perderli. Può cercare di fare da regista al vissuto del figlio che è un altro, completamente altro da sé, come perfettamente chiariscono la danza e le parole del possibile di Alessandra Fabbri con suo padre Alessandro. Lo stesso nome, quasi a prefigurarle un destino umano e professionale cui l’attrice si ribella: «potevo nascere maschio, vitello, ameba», recita mentre danza “cancellando” le orme del padre e invitandolo alla fine a seguire il suo movimento in scena. E ancora la danza di Ilenya Caleo, con suo padre Paolo, marionettista che insieme guida e segue i desideri della figlia-marionetta fin quando lei non riesce a liberarsi dai fili e a cedere al padre le sue vestigia di bambina perché le custodisca amorevolmente in un cassetto. Ed è questo stesso amore che spingerà poi il padre, nel racconto della sua esperienza di operaio, a seguire il bicchiere di latte che conduce alla figlia dall’altra parte del proscenio e che simboleggia quella speranza di vita data alla fine di un lavoro quotidiano eppure quotidianamente rischioso a contatto con sostanze tossiche. La speranza del futuro incarnato dalla figlia, speranza tirata dal filo della responsabilità paterna.

Ma sono tanti i momenti forti, commoventi, sinceramente drammatici dello spettacolo: la seconda Guerra Mondiale che sconvolge con i boati delle bombe la scena meravigliosamente curata da Tiziano Forio, con la poesia essenziale degli interni e delle lampade da terra che tremano e si ravvivano ad ogni scoppio perfettamente guidati dall’esperienza illuminotecnica e fonica, rispettivamente, di Enzo Pirozzi e Diego Iacuz; la strage di Piazza Fontana sulla cui memoria la scena esplode dal basso di vestiti, panni, accessori bruciati da un accadimento di cui non si riescono ad indovinare i nessi con il passato ed il futuro, di cui non si riesce mai a cogliere il significato complessivo. Solo il danzatore Mattia Castelli cuce i vari passaggi del lungo piano sequenza della storia con i suoi passi felpati e i movimenti calibratissimi del suo corpo ora di cane e di fascista, ora di giovane cameriere e di prete nel passaggio all’Italia democristiana (“Libertà-Sotto-Messa” scrive il performer cambiandosi d’abito dietro un tavolo rovesciato, lo spazio di scrittura consente di dividere la parola “sottomessa” in due concetti che ben rappresentano l’incombenza di un nuovo ordine).  E sono davvero tanti i momenti toccanti nelle corde esitanti e pastose di Anna, la madre di Davide Compagnone, cui sono affidati i canti e le speranze della madre napoletana in pensiero per i figli, icona che risale alla veracità della religiosità popolare, del popolo che crede nell’aiuto della Madonna; immagine che attraversa gli eventi più drammatici facendosi sempre meno presente, fino a scomparire ridotta a “brand” istituzionale della chiesa piuttosto che cuore archetipico del popolo. Tutti questi momenti di cui non si finirebbe mai di raccontare, sono resi ancora più vicini e toccanti dalla verità degli individui da cui fioriscono e dalla risonanza collettiva che acquistano; una risonanza di sentimenti che svela una nuova possibile verità umana nell’ appartenenza ad una comunità più vasta di quella familiare, una comunità nazionale a cui ci si senta legati non per dovere patriottico ma per amore della terra, della cultura, amore del passato e amore del futuro.

Il regista interroga direttamente ed indirettamente anche se stesso, oltre che la sua generazione. Interroga la sua professionalità di teatrante e si chiede della possibilità di ricavare anche dal suo vissuto privato e pubblico un racconto dotato di senso; confronta, pertanto, la scena con il retroscena culturale sociale e politico di riferimento. Può il teatro, oggi, avere ancora una funzione pubblica, un valore culturale e politico? Può il teatro essere lo specchio intimo e collettivo della società? Il teatro è di tutti, sembra ricordarci il regista, con l’elaborazione di questo spettacolo. La scena, il teatro, il suo cerchio magico solutore di nodi esistenziali è per tutti, necessariamente. Ma com’è difficile raccontare, com’è difficile dotare di senso tutti questi frammenti di storie individuali, familiari e sociali. Com’è difficile ricomporre la storia in modo che abbia un senso, di là dalla cornice ampia di riferimento di un intero paese anche se piccolo come l’Italia. Così Tania Garibba con il ventre gonfiato deve rispondere alla madre che non ricorda più le storie che lei, con una selva di sagome di legno, le raccontava nella sua infanzia e che per questo non potrà raccontarle alla figlia. Le storie – il senso del suo presente – sembrano partire dal passato; da quel passato che è stato anche rivoluzionato e riscritto dalle nuove istanze della generazione del femminismo a cui la madre appartiene e di cui è sempre disposta a narrare per ricordarle una possibilità di senso.

Ecco che gli attori sono chiamati allora a farsi veramente “interpreti” e così, dalla scena e sulla scena, viene fatta germogliare una possibilità: una piccola piantina tra le macerie della storia, una piantina sulla scena sconvolta dalle bombe delle stragi di stato, ossia la speranza del nuovo, nel ventre gonfiato di Tania. Tutto questo, però, mentre sullo sfondo rivive la triste vicenda di Carlo Giuliani, un’altra vicenda individuale travolta dalla Storia del Paese, un altro vissuto interrotto per aver cercato di esprimere la propria singolarità, sollevando un estintore.

Un altro racconto che si perde tra i racconti senza trovare posto e senso, eppure lasciando traccia e testimonianza.

In scena ancora stasera, domenica 10 giugno, alle 20:30.

Stefania Nardone

 

TEATRO SAN FERDINANDO

Piazza Eduardo De Filippo, 20 – Napoli

Biglietteria  teatro 081 29 18 78

http://www.napoliteatrofestival.it

 

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