La strana avventura di “The Suit”
Peter Brook e la poesia di un perdono da costruire per dimenticare chiudono la prima fase del NTFI.
È una piccola storia quella raccontata in The Suit di Peter Brook, in scena al Mercadante fino al 10 marzo.
Una piccola storia che poggia su un canovaccio alquanto semplice: nella cittadina di Sophiatown, sobborgo di Johannesburg, in Sudafrica, un marito, Philemon, innamorato della moglie Matilda, detta Tilly, scopre quest’ultima con l’amante, il quale per fuggire via dimentica il proprio abito sulla sedia. Da questo momento in poi, l’uomo per punire la consorte, la obbligherà a vivere con l’abito e a trattare lo stesso come fosse un ospite da accogliere, accudire e nei cui confronti essere gentile.
Dunque nessuna particolare originalità nel tema affrontato, nell’evoluzione degli avvenimenti in cui sono coinvolti i personaggi (la vendetta sottile, non violenta, appare umanamente accettabile, all’interno di una coppia, come reazione ad una tale scoperta), eppure lo spettacolo, che ha debuttato a Parigi, due aprile fa riscuotendo grande successo, è tutt’altro che un piccolo spettacolo. Né in termini contenutistici né in termini scenici.
Piuttosto è essenziale, di una complessità semplice, e con delicatezza, affidandosi alla musica – cantata e suonata dal vivo – racconta, attraverso le vicissitudini di un nucleo familiare, anche aspetti e problematiche più ampie, di respiro sociale. Le discriminazioni razziste da parte dei bianchi ai danni dei neri, la politica segregativa dell’apartheid, fanno da sottotesto alla vicenda, attraverso le esperienze e le testimonianze raccontate dai protagonisti, senza che lo stile lieve scelto per rappresentarle, faccia perdere loro di incisività e drammaticità.
Anzi, è forse proprio il parlare di posti a sedere negati ai neri negli autobus, o della distruzione della finora ridente città abitata dai neri per far posto alle case dei bianchi, con tono soave, affidandosi ad una scenografia colorata e luminosa, a mettere ancora più in evidenza la disumanità di ciò di cui si sta narrando.
L’aver poi riconosciuto un ruolo importante alla musica creata da Franck Krawczyk (che ha anche collaborato alla regia e all’adattamento insieme a Marie-Hélène Estienne essendo lo spettacolo tratto dal omonimo racconto dell’autore sudafricano Can Themba), ha significato da parte del regista porre una rilevante differenza rispetto al precedente allestimento andato in scena al Market Theater di Johannesburg col titolo Le Costume: «[La musica] – spiega Brook – è onnipresente in scena. Bisogna poter raccontare questa storia tragica senza che alla fine lo spettatore abbia l’impressione di qualcosa di negativo. Questo è il mio obiettivo».
Molto bravi gli interpreti (Nonhlanhla Kheswa, Jared McNeill, William Nadylam) che nella triplice veste di cantanti-narratori-mimi hanno saputo con efficacia dar consistenza alla storia valorizzando i pochissimi elementi scenografici a loro disposizione senza farne sentire la mancanza a chi guardava. Protagonisti con loro, a tutti gli effetti, i tre musicisti: Arthur Astier (chitarra), Raphaël Chambouvet (piano), David Dupuis (tromba) che hanno saputo con armonia riprodurre le sonorità tipiche della cultura africana accompagnando lo spettatore ad immergersi con naturalezza in quelle atmosfere.
Recitato in lingua inglese coi sottotitoli in italiano, non sono mancate piccole battute in napoletano che hanno fatto sorridere i numerosi spettatori in sala, così come non è mancato il coinvolgimento diretto del pubblico che, nella figura di tre spettatori, è stato invitato a salire sul palco e partecipare attivamente alla scena che stava svolgendosi.
Applausi.
Ileana Bonadies