Gramsci, cronache teatrali: l’industria teatrale
Cronache teatrali dall’«Avanti!», 1916-1920
L’industria teatrale
A Milano si sono radunati a convegno, nei giorni scorsi, i rappresentanti delle tre categorie interessate all’industria dei teatri: i proprietari, i capocomici di prosa e d’operetta, e gli scritturati. Il convegno era patrocinato dal presidente della Società degli autori, per cercare di appianare pacificamente le questioni sorte fra il trust dei proprietari di teatro e quelli che per il teatro lavorano. Tempo sprecato. Le questioni non furono appianate, i proprietari non cedettero di una linea: ma il signor Giovanni Chiarella continuerà tuttavia ad appellarsi alla testimonianza dei capocomici italiani perché documentino il suo illuminato mecenatismo.
I capocomici domandavano il ritorno puro e semplice alle condizioni contrattuali anteriori alla costituzione del trust: 1) abolizione della propina tre per cento sull’introito di ogni spettacolo, imposta dal trust a favore dell’agenzia Paradossi; 2) abolizione delle prelevazioni, nel senso che tutti i posti vendibili nei teatri abbiano a figurare nei bordereaux a comune profitto dei capocomici e dei proprietari di teatro, eliminandosi l’inconveniente che una parte dell’introito rimanga a profitto dei soli proprietari; 3) ripartizione proporzionale su ogni spettacolo dell’ammontare degli affitti annui per palchi e barcacce, affitti che ora vanno a totale ed esclusivo beneficio dei proprietari; 4) riscaldamento a carico dei proprietari di teatro; 5) tassa serale a carico dei proprietari di teatro; 6) per le compagnie d’operetta le spese di orchestra a carico dei proprietari di teatro.
I proprietari non accettarono nessuna di queste proposte, sebbene fossero accompagnate da questi due compensi: 1) estensione a tutti i teatri dell’aumento del 10 per cento sul prezzo dei biglietti dei palchi e posti distinti già praticato in molti teatri e devoluzione dell’aumento a esclusivo vantaggio dei proprietari per compensarli dell’aumentato prezzo del carbone e dell’aumentata tassa teatrale; 2) riduzione del 5 per cento della percentuale sugli introiti serali devoluta finora ai capocomici. I proprietari invece fecero delle controproposte che miravano a far sorgere degli attriti fra capocomici e scritturati. Non vi riuscirono. Se il convegno è servito a qualcosa, è perché ha determinato un avvicinamento tra le tre categorie che sono direttamente danneggiate dal trust: gli autori, i capocomici e gli scritturati. I capocomici hanno concesso agli scritturati un nuovo contratto di locazione d’opera, contratto unico, paga annuale senza stagioni morte.
Certo non basterà questo principio d’accordo per scompaginare il trust e ovviare alla sua azione, deleteria per l’arte, e strozzinesca in confronto di quelli che lavorano. Il trust ha possibilità di rivalsa, contro le quali solo lo Stato potrebbe intervenire. Esso può boicottare subdolamente gli artisti drammatici, e aprire i suoi locali solo al cinematografo, a Petrolini, a Cuttica, a Gabrielli. Il signor Giovanni Chiarella si è fieramente adirato quando noi abbiamo constatato i primi effetti dell’industrialismo monopolistico a Torino. Le stesse cose scrivono ora, dopo l’esperienza del convegno di Milano, anche altri giornali. E usano precisamente quel linguaggio, per il quale il Chiarella ha creduto che lo si tacciasse di volgare affarismo. Riportiamo un brano di uno di questi articoli, scritto in un giornale, che, caso bellissimo, mentre è protezionista per l’industria propriamente detta, è liberista e avversario dei monopoli per l’industria teatrale, l’unica che studi e svisceri con criteri non amministrativi:
I proprietari di teatro sono riuniti in consorzio su basi commerciali e industriali: essi tutelano i propri interessi esclusivamente: dell’arte se ne infischiano. Pensar che a un tratto questa gente si trasformi in un’accolta di mecenati o di persone che si accorgano di non speculare su delle scarpe, sarebbe ingenuità.
Il consorzio oltre aver determinato anche nei teatri di provincia non consorziati aumento di prelevazioni, e aver fatto salire il prezzo dei teatri, finisce col tutelare male anche i propri interessi spinto da necessità insite nella sua natura.
Esso infatti, smanioso di accaparrarsi quanti piú teatri gli è possibile, è diventato e diventa proprietario di teatri di secondo e terz’ordine, che non rendono niente, e che rimangono chiusi gran parte dell’anno. E allora escogita quei mezzi balordi del cinematografo, dei visionisti, degli spettacoli sportivi, dei vari Petrolini, in modo da diminuirne anche la secondaria importanza, di sviarne il pubblico, di ridurli a dei locali buoni a tutto, come le sale superiori dei caffè: per nozze, banchetti, feste da ballo e altro. Anzi, è precisamente un criterio da caffettiere che ispira il consorzio, il quale è sempre in caccia del genere o dell’individuo che piace al pubblico e domani – logicamente – farebbe qualsiasi qualità di spettacolo se non ci fossero i vincoli delle leggi sulla moralità, sul giuoco e su altre miserie. È facile intuire in quali condizioni si trova l’arte drammatica alla mercé di costoro.
Tolte due o tre compagnie favorite, perché attirano gente, le altre che pure l’attirerebbero se potessero recitare durante le stagioni migliori, sono forzatamente escluse da ogni possibilità di far bene; e siccome raramente il valore commerciale coincide col valore artistico, il consorzio favorisce il primo a tutto danno del secondo? Senza contare poi che esso grava sui capocomici in modo da rendere loro difficile la gestione della compagnia e da determinarli a rappresentazioni solleticanti i piú volgari gusti del pubblico, anche nei teatri frequentati da persone colte, intellettuali e pronte a qualsiasi visione di bellezza.
(17 luglio 1917)
Antonio Gramsci