“Il nipote di Rameau”, satira pungente al di là del bene e del male
Lo scettico e dissacrante personaggio finemente ritratto da Diderot rivive nella mirabile interpretazione di Silvio Orlando.
Il nipote di Rameau, nella sua realtà umana, in questa fragile vita che non sfugge all’anonimato se non per mezzo di un nome che non è neppure il suo – ombra di un’ombra – è, al di qua e al di là di ogni verità, il delirio, realizzato come esistenza, dell’essere e del non-essere del reale.
M. Foucault, Storia della follia nell’età classica
«Ho la fronte spaziosa e solcata, l’occhio ardente, il naso pronunziato, le gote larghe, le sopracciglia nere e folte, la bocca ben tagliata, il labbro sporgente e il volto quadro». Questo il ritratto che Jean-François Rameau – nipote del ben più noto Jean-Philippe Rameau, musicista e compositore francese tra i più apprezzati del XVIII secolo – offre di sé all’inizio del dialogo filosofico di Denis Diderot. Sarà forse per una bizzarra casualità, mi dico, o per effetto di una semplice suggestione, eppure non può non scorgersi in questa dettagliata descrizione di Rameau una sorprendente corrispondenza con i lineamenti, al contempo comici e malinconici, del volto di Silvio Orlando. Non me ne voglia l’attore napoletano per l’ardire di questo mio accostamento, ma chissà che anche lui, proprio nel leggere per la prima volta queste parole, non si sia in qualche modo rivisto nei panni del bizzarro personaggio settecentesco, decidendo così di cimentarsi con il difficile testo diderotiano ormai da circa un ventennio assente dalle nostre scene teatrali.
Redatto presumibilmente intorno al 1762, Il nipote di Rameau non fu mai pubblicato, per volontà dello stesso Diderot, quando questi era ancora in vita, forse perché ritenuto troppo audace per le idee in esso contenute o per gli irriverenti strali satirici scagliati contro i personaggi più in auge sulla scena sociale e culturale dell’epoca (si pensi, tra gli altri, a Palissot, Voltaire e Rousseau). Sta di fatto che il manoscritto rimase ignoto al pubblico ancora per lungo tempo, sino a quando, cioè, nel 1805 capitò tra le mani di Goethe che, divenutone un lettore entusiasta, decise di tradurlo in tedesco con il titolo di Rameaus Neffe. Bisognerà tuttavia attendere il 1891 perché l’autografo venga definitivamente scoperto grazie a Georges Monval, bibliotecario della Comédie–Française, che ebbe la ventura di rinvenirlo sul banco di un bouquiniste dei Lungo Senna (il manoscritto è oggi conservato presso la “Pierpont Morgan Library” di New York).
Nonostante le alterne fortune, Il nipote di Rameau può senz’altro considerarsi il capolavoro filosofico-satirico di Diderot, l’opera in cui la raffinata arte dialettica del pensatore francese ha saputo raggiungere la sua massima e più compiuta espressione. La vicenda è narrata in forma di dialogo immaginario tra Rameau e lo stesso Diderot – il quale funge anche da io narrante – e si svolge presso il Cafè de la Régence nel Palazzo Reale di Parigi. Il serrato dialogo tra i due è in realtà un pretesto perché possano confrontarsi, e scontrarsi, due opposte visioni del mondo e della vita. Rameau, musico fallito e parassita sociale per vocazione, più che per necessità, incarna il prototipo perfetto del provocatore intelligente, cinico e scettico oltre misura, materialista radicale e strenuo avversario di ogni forma di astratta e vuota speculazione, sovvertitore di ogni morale precostituita, convinto com’è che l’essenza della vita si riduca alla fine a pura funzione fisiologica. A tutto questo si oppone, o per lo meno sulle prime sembra opporsi, Diderot, l’io narrante, speculare controcanto della posizione espressa da Rameau, fautore integerrimo di una solida condotta di vita ispirata ai più sani principi morali e vigoroso sostenitore della virtù e del genio quali indiscussi pilastri del progresso sociale.
Il contrasto tra i due personaggi, insomma, non potrebbe risultare più evidente. Eppure, nel corso del dialogo, questa distanza apparentemente incolmabile si ridurrà gradualmente, sino al punto che le argomentazioni di Rameau in materia di filosofia, morale, educazione e arte riusciranno in qualche modo a far vacillare le granitiche certezze di Diderot, sempre più affascinato dalla capacità del nipote di lasciarsi guidare, senza falsi pudori, dai propri impulsi elementari, finendo così con l’esprimere in maniera spontanea e originaria le sensazioni del cuore.
Il nipote di Rameau, andato in scena dall’11 al 16 dicembre al Teatro Nuovo nell’adattamento di Edoardo Erba e Silvio Orlando, che ne ha curato sapientemente anche la regia, ha saputo porre in evidenza proprio questo aspetto di apparente contraddizione, per cui la grottesca maschera diderotiana subisce, nell’incalzante dipanarsi della trama narrativa, una dialettica metamorfosi, divenendo al contempo immagine del vizio e dell’abiezione ma anche risoluta denuncia della dilagante corruzione sociale e dell’ipocrisia che da sempre contraddistingue le relazioni umane. In questo caso, ogni riferimento alla nostra più stringente attualità è puramente voluto.
Silvio Orlando dà grande prova di sé, impersonando con maestria un Rameau in continuo, precario equilibrio tra bassezza e profondità, delirio e ragione, perdizione e riscatto, conferendo anima e corpo, insomma, a quella lucida vertigine prodotta dalla consapevolezza del conflitto originario presente nell’uomo, il cui desiderio d’elevazione spirituale è sempre minato da una natura imperfetta e impura. La gestualità quasi burattinesca e il timbro vocale pervicacemente biascicato e monocorde con cui l’attore napoletano ha voluto rendere il suo personaggio contrastano perfettamente con la raffinata ed algida eleganza di Diderot, interpretato da un ottimo Amerigo Fontani. Ci è parsa una soluzione intelligente, in quanto oltremodo efficace nell’impianto complessivo della messa in scena, l’aver affidato alla brava Maria Laura Rondanini il ruolo della cameriera del Cafè de la Régence nonché delle diverse donne di volta in volta evocate da Rameau nei suoi concitati discorsi, così come l’aver restituito l’atmosfera dell’epoca attraverso il commento musicale di un clavicembalo, magistralmente suonato da Luca Testa.
Alla fine della rappresentazione si rimane assorti e come dilacerati tra opposte tensioni, quasi rassegnati all’impossibilità di trarre dalla vicenda di Rameau una verità ultima che ci consoli e ci rassicuri. Ma forse proprio in questo risiede il principale insegnamento che ha voluto consegnarci Diderot, il netto rifiuto, cioè, di ogni forma di piatto dogmatismo mediante quell’atteggiamento scettico capace di porre la ragione al di là del bene e del male.
Armando Mascolo
Nuovo Teatro Nuovo
Via Montecalvario, 16 – Napoli
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