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L’Inferno secondo Beckett nel nuovo spettacolo di Peter Brook per il NTFI. In scena fino a domenica al Sannazaro.

 

Miriam Goldschmidt

Miriam Goldschmidt

Annunciato tra le punte di diamante della sesta edizione del NTFI 2013, risultato della permanenza del regista Peter Brook a Napoli a partire dal mese di maggio, dunque espressione di una delle novità introdotte dal direttore artistico De Fusco per questo nuovo anno («Realizzo in questo modo la mia prima intuizione, quella di non vedere Napoli come un semplice scenario del Festival ma come una delle tematiche stesse della manifestazione»), ha debuttato ieri sera in prima mondiale al Teatro Sannazzaro Lo Spopolatore di Samuel Beckett.

 

Interpretato in francese con sottotitoli in italiano dall’attrice tedesca Miriam Goldschmidt, accompagnata dal percussionista Francesco Agnello, il racconto fu scritto tra il 1965 e il 1970 e in esso il premio Nobel irlandese racchiude tutte le caratteristiche ricorrenti della sua produzione in prosa, ovvero l’attenzione alla simmetricità, alla luce e alla temperatura degli spazi in cui la storia è ambientata, l’isolamento dei personaggi in una dimensione irreale, i richiami all’opera di Dante. È infatti in un cilindro di gomma dalle proporzioni precisate dallo stesso autore, in cui scale, nicchie e cunicoli compongono l’ambientazione mentre esseri (di ambo i sessi e di tutte le età, in numero di 200) si muovono frenetici o stanziano impassibili alla improbabile ricerca di una uscita che non c’è, che l’intera trama si sviluppa rappresentando una “umanità smarrita”, come la definisce lo stesso Brook («Guardando il mondo, Beckett vide l’Inferno. E lo ricreò in quel breve racconto, con le armi della letteratura e della poesia»), che non conosce – si legge nel testo – «un attimo di fraternità e ciò non tanto perché [gli esseri] difettino di cuore o di intelligenza quanto perché sono tutti prigionieri del loro ideale».

 

Su un tale canovaccio va ad innestare la sua ricerca e il suo lavoro il regista inglese tra i nomi più noti del panorama teatrale contemporaneo, il quale sceglie di avvalersi di una messinscena minima (composta da un solo sgabello di legno al centro del palco, e tre scale poggiate alle pareti) per rappresentare il monologo, intervallato solo sporadicamente da accenni sonori.

 

Se queste le premesse, insoddisfacente appare, però, il risultato che ne esce fuori. Uno spettacolo che mai inizia, una prova generale perpetua –  di cui il copione tra le mani della protagonista che lo legge (solo flebilmente interpretandolo e accompagnandolo da gesti troppo incerti  perché se ne colga l’essenza e la necessità) ne è l’emblema – è l’impressione che si ha al termine dell’ora trascorsa. E la condizione in cui si resta fino all’ultima battuta è quella di attesa: che lo spettacolo prenda vita, che ci sia un crescendo, che qualcosa accada a smorzare il procedere monotono della lettura che drammatizzata non è, affinché un coinvolgimento empatico prenda il sopravvento e le parole del testo si animino ad attrarre chi le ascolta.

 

«Il teatro è suggestione, – dichiara Brook nello spiegare le sue scelte – se mostri troppo, non vedi niente!»: eppure questa volta è forse eccessivo lo sforzo di immaginazione richiesto perché si possa cogliere il significato di tale impostazione e la si possa giustificare. Piuttosto, altro è il pericolo in cui si rischia di imbattersi: incentivare lo scollamento tra il pubblico e il teatro, problematica particolarmente di attualità che operazioni del genere sembrano ingigantire più che attenuare, soprattutto nel momento in cui a giudicarlo non è un pubblico di addetti ai lavori, ma spettatori paganti che – per quanto pronti ad assecondare la tendenza beckettiana a non dare risposte dal punto di vista drammaturgico – possono riscontrare difficoltà a entrare in sintonia con l’opera secondo queste modalità e di conseguenza allontanarsene. Ad uscirne sconfitti saranno a questo punto, inevitabilmente, la Cultura,  indotta a svelare la sua attitudine a respingere anzichè accogliere; le azioni politiche e artistiche che dal basso, in controtendenza, senza clamori, operano affinchè con gestioni oculate di denaro si possano realizzare spettacoli ed eventi godibili, accessibili a tutti e intellegibili; ma soprattutto gli spettatori (tra le risorse da incrementare e coltivare perché una ripartenza socio-culturale avvenga e sia gradualmente in grado di prospettare soluzioni alla crisi imperante), sedotti da nomi importanti, esordi eccellenti, ma poi abbandonati.

 

Ileana Bonadies

 

 

Teatro Sannazaro

Via Chiaia n.157, Napoli

Date:

venerdì 7 ore 20

sabato 8 ore 21.30

domenica 9 ore 19

Durata: 1h

Biglietteria: http://www.napoliteatrofestival.it/Napoli_Teatro_Festival_Italia/BIGLIETTERIA.html

 

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