Inno alla vita
Con Garrella e i suoi pazienti-attori, nuovamente in scena “La classe morta” di Kantor.
Rievocando quel caposaldo della ricerca teatrale europea che La classe morta ha rappresentato nel secondo Novecento, Nanni Garrella ha realizzato uno spettacolo di straordinario spessore per lavoro degli attori e per potenza evocativa. Proprio come per la messinscena che Tadeusz Kantor presentò nel 1975 presso la Galeria Krzysztofory, La classe di Garrella si compone di una scolaresca di adulti, intorno alle mezza età, sistemati nei tipici banchi degli istituti del XIX-XX secolo, sotto lo sguardo dall’attenzione intermittente di un responsabile – in questo caso di un collaboratore scolastico e non di un docente, ruolo che Kantor stesso si riservava. In scena al Ridotto del Mercadante per il Napoli Teatro Festival ritroviamo soprattutto i volti cadaverici, gli sguardi persi e i giochi stranianti dei personaggi che, immediatamente, suggeriscono la propria condizione di defunti, la propria permanenza nello spazio di un’ipotetica aula, come un limbo in cui si soffermano a metà strada tra la vita, il ricordo e l’oblio.
Eppure non è questo il tratto caratteristico de La classe: la peculiare pregnanza che il teorico polacco aveva attribuito al proprio studio qui non viene meno, anzi risulta rafforzato nella riflessione sulla dolorosa ambiguità tra esistenza e morte che tocca tutti gli uomini. Ma l’elemento che stratifica e approfondisce tale principio sta negli attori di Garrella, pazienti psichiatrici di Arte e Salute onlus, testimoni della straordinaria, non nuova, prolificità generata dall’incontro tra lavoro artistico e terapia nell’ambito della salute mentale.
La resa è eccezionale e la portata comunicativa della scena si carica di un vitalismo inaspettato: i protagonisti riflettono sé stessi attraverso dei manichini, feticci che si trascinano dietro e che ricordano la gioventù, l’epoca della scuola. E per gli attori-pazienti è un’interpretazione carica di significato: per loro l’infanzia «è separata dal resto della vita, come divelta dallo scorrere naturale della maturazione e dell’età, ed è per loro più facile che per altri rappresentare la bellezza e l’insostituibile pienezza di felicità del tempo perduto dei banchi di scuola», spiega il regista.
Ed è così che in un tempo ciclico, sospeso in un’aula popolata da fantasmi inconsapevoli della propria essenza, riemergono più volte e irregolarmente dalla coscienze gli echi di filastrocche, motti, aneddoti storici, quei bagagli leggeri ed elementari che si apprendono da piccoli e si portano per sempre con sé. Si delineano tratto a tratto delle identità più o meno probabili, attraverso le relazioni tra i personaggi e le loro ossessioni giocose: un desiderio di maternità che si reitera di mese in mese, un invito continuo a passeggiare approfittando della primavera, un rammarico per il tempo eccessivo dedicato agli studi. Tutte storie possibili, con altrettanti possibili finali: «Il risultato è che un mondo perduto, morto, sepolto nella memoria, si trasforma in un trepidante, violento, commovente inno alla vita», evidenzia Garrella. «Il rapporto imprescindibile dell’uomo con la morte è un tema che la società contemporanea rifugge dall’affrontare, per rincorrere una vita di facili e avide conquiste di benessere materiale. Nel nostro spettacolo, il confronto con la morte è vissuto sulla pelle da attori che hanno perduto una parte importante della propria vita, spezzata dalla malattia e dalla sofferenza; e che hanno imparato, proprio dal confronto aspro con le forme teatrali dei personaggi, a riconquistare la dignità e la pienezza dell’esistenza e della propria umanità».
Eduardo Di Pietro