Manlio Boutique

QuartaParete ha incontrato il protagonista del film Reality di Garrone, nonchè attore della Compagnia della Fortezza. Ecco cosa ci ha raccontato.

Arena in una scena del film "Reality"

Arena in una scena del film “Reality”

Aniello Arena è un attore della Compagnia della Fortezza, tra i protagonisti dell’ultimo lavoro di Armando Punzo, Santo Genet commediante e martire, andato in scena per il festival Volterra Teatro 2013.
Divenuto celebre con il film Reality di Matteo Garrone, lo scorso anno Arena ha vissuto un periodo indimenticabile in cui ha raccolto consensi e riconoscimenti tra cui il Nastro d’Argento come miglior attore dell’anno e il Grand Prix di Cannes per la pellicola, non mancando di incontrare anche il presidente Napolitano al Quirinale, durante la serata  finale dei David di Donatello. Un esempio vivente, dunque, dell’attività che da 25 anni il regista Armando Punzo porta avanti con la Compagnia della Fortezza. Ma anche un ergastolano, condannato per un omicidio commesso nella strage di piazza Crocelle l’8 gennaio 1991, a Barra, zona est di Napoli, in cui morirono tre persone più un’anziana signora stroncata da infarto, mentre altre due persone (tra cui un bambino) rimasero ferite. Tra quel giorno maledetto, quando Arena aveva solo 23 anni, e il presente, sono trascorsi più di vent’anni di detenzione e più di dieci anni di teatro. Oggi quell’uomo dimostra una consapevolezza indiscutibile e lavora, grazie alla buona condotta e alla semilibertà, tutti i giorni dalle 9,15 alle 18,30, presso la sede di Carte Blanche, l’associazione della Compagnia della Fortezza, presieduta sempre da Punzo.
In occasione della trasferta di QuartaParete a Volterra, Aniello Arena ci ha gentilmente concesso un’intervista (NdR qui riportata volutamente nella sua forma originale). 

La Compagnia della Fortezza ha presentato all’ultimo festival di Volterra Santo Genet commediante e martire, con l’insostituibile regia di Armando Punzo. Che tipo di esperienza è stata per lei? Come si è strutturato il lavoro e quanto è durato? 

Arena durante lo spettacolo "Santo Genet commediante e martire"

Arena durante lo spettacolo “Santo Genet commediante e martire”

Abbiamo scelto Jean Genet perché Armando fu colpito da una frase nel prologo del Diario del ladro che dice: “Ricoprirò sempre di fiori gli ergastolani fino a farli diventare un nuovo e gigantesco fiore”. Jean Genet è un autore straordinario e come artista in carcere ci assomiglia un po’: anche noi, attraverso il teatro della Compagnia della Fortezza, diventiamo “altro”; non si vede più Aniello come ergastolano ma Aniello per le sue potenzialità, le sue capacità. La cosa bellissima di Genet è il fatto che estetizza il male facendolo diventare produttivo, costruttivo. In più c’è anche una provocazione: lui (NdR Punzo) ha scelto un autore nato in carcere per una compagnia di detenuti e i suoi 25 anni di attività.
Noi lavoriamo tutto l’anno partendo da qualche testo che a volte è tutt’altro rispetto a quello che metteremo in scena: se vediamo che ha attinenza con noi, lo teniamo, altrimenti lo lasciamo. Siamo arrivati al punto di cambiare un mese prima lo spettacolo! La bellezza e la forza di Armando Punzo è questa: lui travolge il copione e anche quando si sceglie un testo, vi rientrano tanti altri autori.

C’è un episodio in particolare che ricorda durante tutto il suo percorso con la Compagnia della Fortezza? Perché?
Nel 2002, per il primo studio sull’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht, ricordo che durante le prove, durante il periodo cruciale da maggio a luglio – era il mio primo anno –  io avevo cinque-sei personaggi e, per uno in particolare, avevo inventato un monologo in napoletano sull’uomo avaro che piaceva ad Armando. Quando è stato il momento di andare in scena, io mi vergognavo di farlo davanti al pubblico, quindi mi sono andato a nascondere nel guardaroba e quando mi vennero a chiamare, «Anie’ tocca a te, tocca a te», io dissi che non me la sentivo. Venne Armando e disse «Vieni con me», mi prese per mano come un bambino e disse «Dì a me questo testo» – «No Arma’» – «Dimmelo, non c’è nessuno», e io ho iniziato. Man mano vedevo che le persone si avvicinavano e poi mi son lasciato andare. Questo perché dentro di me mi preoccupavo di cosa potevano pensare gli altri detenuti, mi creavo il problema che potevano prendermi, chissà perché, per scemo. Io non ero come oggi, ero molto limitato nei miei pensieri – che poi erano idee solo mie, le persone se ne fregavano! Ho avuto difficoltà per un anno intero a mettermi in discussione e di continuo mi dicevo: “Se devo frequentare il teatro, non posso andare là a riscaldare la poltrona, io devo alzarmi e devo creare, altrimenti è inutile”. Man mano questa cosa per fortuna ha prevalso, ma avevo paura veramente.

Come il teatro ha cambiato la sua vita da detenuto? Pensa che dedicarsi all’arte possa costituire una risposta per chiunque viva in uno stato di reclusione?
A me l’ha cambiata totalmente; sono divenuto tutt’altro in carcere rispetto a come ero da ragazzo. Quando sono arrivato a Volterra avevo sentito parlare della Compagnia della Fortezza e del teatro in carcere: essendo Armando Punzo napoletano, pensavo, però, alle solite sceneggiate napoletane. Poi quando ho visto uno spettacolo mi ha colpito e mi sono chiesto “Ma dove ho vissuto fino a adesso?”: vedevo qualcosa di diverso da quello che era il teatro nella mia testa.
Io credo di sì, l’arte e la cultura in generale aiutino tanto, ti aprono la mente e fanno vedere le cose diversamente: io prima ero, come dico sempre, con i paraocchi come i cavalli, il teatro mi ha fatto vedere cose che prima non volevo vedere. Io non ho fatto il teatro come riabilitazione, per inserirmi, pensando “Io devo cambiare”, ma mi ha portato automaticamente all’inserimento. Ho avuto questo cambiamento gradualmente, non per qualcun altro ma per me stesso, perché dentro di me volevo essere un’altra persona.
Cosa ho fatto nel passato? Niente, distruzione, negatività, quindi io da oggi metto un punto, svolto e cerco di costruire. Ho sempre detto che tutti sappiamo distruggere: per costruire un castello di sabbia ce ne vuole, ma basta una pedata di un bambino e crolla tutto, quindi bisogna creare, costruire, incanalare energia positiva.

Pensa che le strutture carcerarie in Italia e i metodi penali che vengono applicati siano utili per arrivare a una effettiva reintegrazione sociale del condannato? Cosa crede andrebbe cambiato?
In Italia ci sono pochissime strutture penali che ti mettono in condizione di scontare la pena con dignità, ti danno la possibilità di cambiare veramente senza che una volta usciti si torni a delinquere. Io ho girato molti istituti ma per me quello di Volterra è il migliore. Ci vorrebbero tante altre “Volterra” in Italia: che sia il teatro o altre attività ricreative o anche lavorative, così che dopo non si creerebbe recidività. Se io ho capito il percorso di pena, non è che dopo dieci o quindici anni di carcere vado a delinquere, sarei solo un coglione! Altrimenti chi uscirà, sarà solo pieno d’odio, sbandato, senza un punto di riferimento. Qui anche le guardie sostengono i progetti, fino agli ispettori e ai commissari. Altrove se hai un problema se ne fregano, invece ci dovrebbe sempre essere un dialogo fra detenuti e guardie e non barriere, come tra nemici. Così non si va da nessuna parte: non fai altro che accumulare rabbia nel detenuto e stress nella guardia. E alla fine stanno male tutti.

Foto di Stefano Vaja

Foto di Stefano Vaja

Volterra l’ha tenuta a battesimo e l’ha cresciuta dal punto di vista teatrale. Dopo l’esperienza cinematografica con Reality, del successo e delle soddisfazioni a livello nazionale, lei ha ripreso il suo lavoro con la Compagnia della Fortezza, ma che  futuro artistico s’immagina? C’è qualcosa in particolare che le piacerebbe fare in teatro o al cinema? 
Sì: uno spettacolo da solo. Anche se ho fatto un film da protagonista con Matteo Garrone, vorrei fare uno spettacolo da solo. Quest’anno siamo stati molto impegnati con lo spettacolo [Santo Genet commediante e martire] e  Armando non ha avuto molto tempo per lavorare su di me. Io ho bisogno della sua regia, ho bisogno delle indicazioni e di essere guardato dall’esterno.  Nel mio piccolo posso guardare un altro ma non ho l’occhio da regista: se avessi anche quello sarebbe il massimo. Un domani non si sa mai…

Per Santo Genet commediante e martire ci sarà un “secondo movimento”?
L’anno prossimo. Lo spettacolo di quest’anno era uno studio. Tra poco inizieremo a lavorare per farlo diventare frontale e adattarlo all’italiana, dato che è uno spettacolo itinerante.

Se l’uomo che lei è diventato oggi potesse parlare al ragazzo che è stato in passato, cosa gli direbbe?
Quello che ho già detto in altre occasioni: per prima cosa i ragazzi devono andare a scuola perché ti apre la mente. L’ignoranza  ti mette i paraocchi, anzi le bende sugli occhi. Secondo, bisogna avvicinarsi all’arte, ma non lo dico perché faccio teatro, a qualunque arte o anche allo sport. Io penso: ma sai quanti Maradona abbiamo a Napoli che non hanno possibilità perché hanno una famiglia disagiata? Perché per scoprire una vena artistica si deve venire in carcere? Le strutture a livello nazionale dovrebbero creare dei progetti in modo da seguire i ragazzi per capire le loro potenzialità in qualsiasi settore e indirizzarli, seguirli. Se non c’è questo non si arriva da nessuna parte, siamo sempre fermi. Il futuro sono i ragazzi, se non si proietta tutto su un giovane, dove andiamo? E non parlo solo di Napoli, parlo proprio del Meridione, perché dalla Campania in giù credo che stiamo rovinati.

Eduardo Di Pietro e Giulia Esposito

(reportage Volterra Teatro parte 2 – continua…)

Print Friendly

Manlio Boutique