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QuartaParete ha incontrato il regista napoletano, noto per avere realizzato uno dei primi progetti di teatro in carcere d’Italia con la sua Compagnia della Fortezza.

genet22_0034-300x225Armando Punzo, drammaturgo e regista napoletano, originario di Cercola, è noto soprattutto per aver realizzato uno dei primi progetti di teatro in carcere in Italia con i detenuti dell’istituto penale di Volterra, è qui infatti che nel 1988 fonda la Compagnia della Fortezza. Alla sua direzione realizza decine di spettacoli, ottenendo importanti riconoscimenti tra cui numerosi premi UBU, e porta il gruppo in tournée nei più importanti teatri e festival italiani. Direttore artistico del Teatro di San Pietro di Volterra e del festival Volterra Teatro, quest’anno, in occasione dei 25 anni della sua compagnia, presenta il suo nuovo libro È ai vinti che va il suo amore – 25 anni di teatro della Compagnia della Fortezza di Volterra,che ne raccoglie la storia ricostruita attraverso fotografie, testi, frammenti poetici e la teatrografia completa. Il nuovo progetto-sfida che sta portando avanti ora Punzo, infatti, riguarda la realizzazione e il riconoscimento istituzionale del primo Teatro Stabile in carcere della storia.

Lei è nato nella provincia campana. Ha avuto esperienze teatrali a Napoli?
Ho iniziato a fare teatro quando studiavo all’Università L’Orientale di Napoli con un gruppo che si occupava di teatro di ricerca C.R.A.S.C., ho poi fondato una cooperativa che si chiamava “Il piccolo circo oscuro”. Ma sono andato via presto da Napoli e sono arrivato a Volterra, credo nell’ ’82, per lavorare con il Gruppo Internazionale “L’Avventura” che proveniva dall’esperienza di Grotowsky.i

Perchè ha deciso di stabilirsi a Volterra ed “autorecludersi”?
Quando è finita l’esperienza di parateatro con il Gruppo “L’Avventura” alcuni membri sono andati via mentre io sono rimasto a Volterra e ho chiesto di entrare nel carcere per iniziare questa esperienza. Desideravo avere una compagnia di teatro ma non volevo lavorare con i professionisti.

fortezza-di-volterra-carcereIl suo lavoro costituisce ormai un operato di indiscutibile valore in termini artistici e sociali, comprovato dai risultati, oltre che dai riconoscimenti. Ma come struttura il lavoro con gli attori della Compagnia della Fortezza?
Il mio modo di lavorare, sebbene strutturato su uno stesso pensiero-guida, cambia in base alle esigenze dei testi che affrontiamo. Avviene attraverso mesi di lavoro: si inizia a lavorare a settembre e si termina a luglio. In quest’arco di tempo cominciamo a valutare le varie idee, a ragionare sulle proposte. Cerco di capire se l’idea che propongo funziona e se può essere condivisibile da tutta la compagnia. Con il tempo questa si sviluppa attraverso la lettura di testi, discussioni, improvvisazioni e un lavoro assiduo con ogni persona, in modo da trovare per ognuno la strada giusta per poter proseguire il percorso.i

Che apporto ha dato il teatro al carcere di Volterra e cosa non è ancora riuscito a dare?
Io non ho lavorato per il carcere, mi sono ritrovato nel carcere. Non sono entrato nel carcere per il carcere ma nel carcere per il teatro e ciò costituisce una differenza enorme rispetto a tante altre esperienze simili che oggi sono nate a seguito della Compagnia della Fortezza. Il teatro, questo linguaggio che sembra inutile nel mondo per gli altri, ha trasformato completamente la prigione di Volterra che 25 anni fa si presentava come un luogo chiuso e fermo su se stesso. Quando è arrivato il teatro si è portato dietro critici, pubblico, apertura alla città e da lì è iniziato un processo inarrestabile: il passaggio da un carcere completamente chiuso ad uno dei più aperti che ci sono oggi in Italia e in Europa. Tutto ciò può essere considerato una risposta alla tragica situazione delle carceri in Italia, che oggi si trovano in uno stato di sovraffollamento e di inciviltà assoluta. Ti fa capire che se una persona lavora bene seguendo una direzione precisa può arrivare a grandi risultati, persino a migliorare la vita all’interno degli Istituti.i

Quali sono le condizioni istituzionali e logistiche per gli istituti di pena, necessarie a svolgere un’attività teatrale efficace come quello del carcere di Volterra? È un tipo di lavoro esportabile in altri contesti?
punzoQuando la Compagnia della Fortezza nel ’93 vinse il premio UBU come miglior spettacolo dell’anno, gareggiando con le migliori compagnie e i nomi più importanti del mondo teatrale, molti operatori capirono che nel carcere si poteva concretamente fare un lavoro importante e ottenere dei riconoscimenti. Da quel momento molti si sono avvicinati a questo progetto, sia persone che non si occupavano di teatro sia coloro che non trovavano uno spazio fuori dal carcere. Il loro obiettivo era sociale: volevano salvare le anime, salvare le persone. In molti casi non erano veri professionisti del teatro e ciò suscitava un po’ di confusione tra il cercare di salvare qualcuno e fare il teatro. Altre esperienze, invece, si sono poste in maniera più professionale fin dall’inizio. Io credo che l’Istituto di Volterra debba costituire un esempio. Il teatro ha una particolarità che lo rende diverso e straordinario: ha che fare con l’uomo direttamente. È qualcosa che mette in discussione totalmente e completamente te stesso. Il gruppo che fa questo tipo di lavoro diventa un cuore pulsante di un istituto di pena. In questo tipo di percorso teatrale però sono fondamentali la guida e gli obiettivi che devono essere artistici o altamente artistici in quanto sono coinvolti i detenuti, gli agenti e la struttura. Tutto ciò comporta un cambiamento radicalmente della vita all’interno di un istituto.i

Ad oggi che cosa divide ancora Volterra dalla creazione e dal riconoscimento di un Teatro Stabile in carcere?
È necessario che più persone a più livelli prendano coscienza della grandi potenzialità del teatro. La proposta di voler creare un teatro stabile in carcere ha suscitato il timore da parte delle istituzioni politiche e carcerarie. Ciò nasce ogni volta che si vuole attuare un progetto nuovo e innovativo. Secondo me c’è poco coraggio e anche poca capacità di leggere gli eventi.i

Lei ha sempre rifuggito la lettura “salvifica” del teatro in carcere, soffermandosi su più approfondite riflessioni circa le trasformazioni che l’istituzione carceraria dovrebbe subire – fino ad auspicarne l’eliminazione. D’altro canto, con il vostro spettacolo Mercuzio non vuole morire, ha individuato nell’opera di marginalizzazione sistematicamente rivolta alla cultura, all’arte e al sogno, caratteristica del nostro tempo (e della maggior parte delle epoche, come lei stesso segnala), un male fondante della nostra società. Con questa denuncia ha proposto una possibilità di opposizione collettiva, un bisogno di libertà e di creatività. Non è questo un modo comunque, proprio attraverso il teatro, per “salvarsi”?
pinocchio-punzo290Parlare di “salvifico” per quanto riguarda il teatro è troppo generico. Io ho iniziato a far teatro perché semplicemente non trovavo nessun’altra possibilità al momento. Il teatro può essere “salvifico” nel senso che può diventare un veicolo di conoscenza e presa di coscienza: l’obiettivo primario deve essere quello di interrogarsi sull’uomo e su se stessi. Il teatro, quindi, può essere “salvifico” se viene fatto un lavoro consapevole, profondo e artistico.

La comparsa del teatro nel carcere di Volterra ha portato all’arrivo di tante altre attività negli anni. È straordinario che questo sia stato l’avvio di un cambiamento reale. Nello spettacolo Mercuzio non vuole morire viene in un certo senso esplicitato ciò che quotidianamente avviene in prigione: quando chiediamo di creare il primo Teatro Stabile in carcere al mondo e invece sentiamo che ci sono ancora, purtroppo, delle resistenze enormi intorno a questo progetto nonostante i risultati, i venticinque anni, tutto quello che stiamo dicendo, che si è visto e si vede. Questo Mercuzio non vuole morire è anche un po’ la nostra Compagnia che non vuole morire, forse anch’io con il mio pensiero, con quello che ho fatto fino ad oggi. Non vogliamo essere sbranati e divorati dalla realtà.

Il Santo Genet commediante e martire che abbiamo visto al Festival di Volterra indica un “primo movimento”. Quali saranno i passi successivi del progetto?
Non lo so. Per noi era un inizio un avvicinamento a Genet. Si tratta di capire se è possibile andare avanti e continuare questo lavoro. È importante studiare tutta l’opera di Genet, cercare di starci ancora sopra e di andare ancora più in profondità. Poi bisogna prevedere anche una messinscena all’italiana e quindi questo significa avere altro lavoro, altro materiale, altre situazioni e altre associazioni da ricercare. Per questo è un inizio, noi non conosciamo ancora gli sviluppi.
Torneremo a rileggere tutta l’opera di Genet e andremo a ragionare partendo dai risultati che abbiamo costruito per capire se riusciremo a portare avanti questo lavoro.

Giulia Esposito e Eduardo Di Pietro

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