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Il poliedrico artista leccese si racconta a QuartaParete presentando il suo ultimo spettacolo dedicato ad un ” genio folle”: Antonio Ligabue.

 

IMG_6387Mario Perrotta, classe 1970, è un attore, drammaturgo, regista teatrale e scrittore italiano. Nato a Lecce, studia teatro a Bologna e nel 1994 fonda, insieme agli altri compagni di corso, la Compagnia del Teatro dell’Argine portando avanti numerosi progetti. Nel 2011 vince il Premio Speciale Ubu per la Trilogia sull’individuo sociale. In occasione del Festival Volterra Teatro 2013 ha portato in scena uno spettacolo dedicato al pittore svizzero-reggiano dal titolo Un bès – Antonio Ligabue che rappresenta la prima parte della sua nuova trilogia Progetto Ligabue. QuartaParete lo ha incontrato ed ecco quello che ci ha raccontato.

Com’è nata l’idea di dedicare uno spettacolo ad Antonio Ligabue e perché realizzare un progetto di così ampio respiro?

Come tutti i miei spettacoli anche questo nuovo progetto ho dovuto attendere che si presentasse per una sua urgenza intima. Inizialmente, fai difficoltà a coglierla ma, come sempre, procedendo con il lavoro, scrivendo, cancellando, intervistando persone, salta agli occhi all’improvviso quella connessione segreta con la tua vita, con gli affanni, le preoccupazioni di quella fase della tua esistenza e allora capisci il perché profondo di ciò che stai mettendo in atto sulla scena.
Tutto è iniziato così. Durante una replica del mio spettacolo Odissea (Premio Hystrio per la drammaturgia) a Gualtieri, il paese d’origine di Ligabue, ho visto una sua gigantografia e un busto a lui dedicato ed è stata una strana epifania: per quelli della mia generazione tra i 40 e i 45 anni, Ligabue era ed è lo sguardo ad occhi sgranati e smarriti di Flavio Bucci nello sceneggiato Rai degli anni ’70. Uno sguardo terrifico per chi, come me, aveva otto anni e subiva l’apparizione del “diverso”, del bambino indifeso che diventa una bestia. Il ricordo di quel terrore e quella fascinazione infantile, unito alla vista dei luoghi dove aveva vissuto, hanno scatenato un nuovo innamoramento per questo personaggio. Ma questo non sarebbe bastato per impostare un intero progetto teatrale su di lui, forse neanche uno spettacolo. E, infatti, ho iniziato a lavorare con un punto di domanda ancora aperto sulle ragioni profonde della mia scelta. Poi, un giorno, senza alcuna causa apparente c’è stata la “rivelazione”. La spiego così: nelle prossime settimane diventerò finalmente padre di un bimbo meraviglioso che arriva dall’Etiopia. Io e mia moglie, come tutte le coppie adottive, abbiamo percorso un lungo cammino, dovuto ai tempi di legge, per arrivare a concludere l’adozione. E in questi anni molte sono state le domande e i dubbi su cui abbiamo ragionato. Tra questi, uno dei più impellenti era il seguente: mio figlio arriva dall’Africa e porta con sé tutti i segni distintivi della sua origine, compreso il colore della pelle; noi, ovviamente, non porremo la minima attenzione a questo ma qualcuno, nel tempo e nei luoghi che frequenteremo, potrà, invece, puntualizzare questa “diversità” (in aggiunta all’altra diversità altrettanto evidente che è un bambino adottato); bene: sapremo dare a nostro figlio gli strumenti critici per accettare e comprendere questa puntualizzazione che, per quanto inopportuna e stupida, in alcuni casi accadrà inevitabilmente?
È chiaro che, nel tempo, abbiamo trovato risposte razionali e di buon senso a questo dubbio ma dal punto di visto emotivo avevo ancora bisogno di “tirar fuori” e allora, ecco che l’incontro con il “diverso” per eccellenza, Antonio Ligabue il pazzo, il genio, lo straniero, il reietto, ha scatenato il corto circuito che ha dato vita all’intero progetto. Attraverso la sua figura potrò dissolvere anche le ultime tracce di quei dubbi e quelle domande di cui ho appena scritto.
Infine: è proprio l’urgenza della domanda che determina la forma e la durata del progetto. Trovo riduttivo fermarsi a un solo spettacolo per esaurire un argomento così profondo. Ho bisogno, invece, di respirare lungo, di indagare diversi aspetti della vicenda di Ligabue, partendo dall’uomo, lo scemo del paese, che è l’oggetto del primo spettacolo Un bès – Antonio Ligabue, per poi occuparmi dei suoi quadri e delle sue sculture fino ad arrivare al rapporto tra il suo paesaggio interiore, la Svizzera mitica della sua infanzia, e quello esteriore, la pianura padana con il grande fiume Po.
Dal suo lavoro traspare chiaramente un’attenzione particolare al ruolo della marginalità nel panorama sociale. A pochi giorni dalla sua partecipazione al Festival di Volterra, cosa pensa dell’esperienza della Compagnia della Fortezza, della manifestazione e dell’attività teatrale in luoghi liminali come il carcere?

Sicuramente lo “stare al margine” è una condizione che mi affascina molto, sin dal progetto dedicato ai nostri emigranti degli anni ’50 e ’60. È una condizione limite, appunto, che trova rispondenza ancora una volta in un’esperienza profondamente mia legata all’infanzia. Da figlio di genitori separati nel sud di quaranta anni fa, il rischio di essere messo al margine per questa condizione era forte e ho dovuto sempre lottare per restare invece “all’interno della cerchia”, tanto che spesso, finivo per ritrovarmi al centro della stessa, troppo al centro, esattamente come se stessi in scena a teatro (ecco che non mi è stato difficile il passaggio da un “palcoscenico” all’altro).
Nel mio caso poi, questa paura di veleggiare sul limite si è andata dissolvendo con il passare del tempo ed è diventata solo un ricordo mentre, per quanto concerne la condizione carceraria, è connaturata ad essa anzi, è il suo superamento perché il limite sono i cancelli e le mura della prigione ma tu detenuto ti trovi oltre essi e quindi sei “fuori”. Fuori dal consesso umano che ti ha rigettato invocando spesso il “buttare via la chiave”.
Per fortuna ci sono esperienze come quelle della Compagnia della Fortezza che rintracciano un ponte possibile tra quelli che stanno dentro e quelli che stanno fuori dalla vita. Non a caso inverto i termini consueti, poiché la condizione carceraria, a mio avviso, è una condizione di “non vita in attesa di nuovo ingresso”. E, invece, la sensazione che hai quando vedi i lavori della Fortezza (e soprattutto quando li vedi all’interno del carcere), è che la vita s’insinui di forza in quei luoghi, per feritoie segrete, impossibili da sottoporre a controlli; che l’ostinazione ad esserci dei detenuti e di chi lavora con loro esploda in tutte le forme possibili, visive e sonore, e travolga chiunque si trovi nel perimetro delle mura. E non c’è modo, in quei momenti, di restarsene al margine, perché ogni angolo vibra di centralità, ogni singolo interprete, anche l’ultimo arrivato che dice solo due parole, è talmente potente nell’affermare la sua esistenza che, dovunque egli si trovi durante la rappresentazione, diventa il centro del mondo e tu ci sei dentro con lui. Ecco, questa è l’aspetto che più mi colpisce del lavoro della Compagnia della Fortezza, aspetto che valica anche i risultati meramente estetici che pure sono stati determinanti per far conoscere e far durare quell’esperienza nel tempo.
Se fosse per me, istituirei l’obbligo della pratica teatrale in tutti i luoghi di studio, di lavoro, di detenzione, di raccoglimento: il mondo ne gioverebbe e gli uomini si prenderebbero meno sul serio.
01Nella sua biografia sottolinea il fatto che, nonostante le attuali tendenze economiche del teatro in Italia, lei è “un uomo di teatro e non un commerciante”, sottraendosi alle logiche del mercato culturale. Il suo progetto e i suoi passati lavori prescrivono una risposta opposta a questa situazione, ma qual è il modo? E’ possibile proporre dei metodi di produzione alternativi per rinnovare il teatro?

Con il progetto Ligabue sto provando a mettere in atto esattamente questo: uscire dalle pastoie umilianti dei finanziamenti e dei sostegni ridicoli alla cultura e attivare un modello di sostegno economico che responsabilizzi le persone e le aziende che insistono su un territorio. Di là dal fatto che io riesca o meno in questa impresa donchisciottesca (ad oggi sembra che tutto funzioni miracolosamente), resta fermo quanto detto poc’anzi: non posso fare a meno di seguire le mie necessità e sono esse che determinano le scelte economiche dei miei progetti e le richieste che il gruppo di lavoro rivolge a potenziali finanziatori. Insomma: sono anche stanco di fare nozze con i fichi secchi e, se non avessi agito così anche in passato, sarei rimasto inchiodato a una sedia a fare monologhi low budget diventando un “commerciante” del monologo. Sia chiaro: quando decido che è il momento di stare solo in scena vuol dire che mi è necessario così. Ma è altrettanto vero il contrario (vedi la precedente Trilogia in cui ho lavorato con molti attori) e a questo non posso proprio derogare.
L’unica vera risposta che ho alla sua domanda è proprio questa: fare ciò di cui si sente il bisogno, anche se questo vuol dire andare contro ciò che chiede il mercato e dover fare enormi sacrifici per realizzare il proprio progetto.
Quando vedremo Un bès – Antonio Ligabue a Napoli?

Quando un teatro napoletano avrà voglia di fare una proposta. Ma al momento Napoli tace, come da anni, del resto. Anche i miei ultimi spettacoli, vincitori del Premio Ubu, non sono passati dalla vostra città. Non so come interpretare questa situazione ma se si invertisse la tendenza con questo nuovo progetto ne sarei felice.

 

Eduardo Di Pietro e Giulia Esposito

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