Indagando il Male
Latella poggia il suo sguardo sull’atrocità della Storia recente, in cerca di una origine che spieghi il tutto.
Sono scarne le note di regia che accompagnano A.H., scritto da Federico Bellini e Antonio Latella e diretto dallo stesso Latella; così come scarna è la scena che si presenta ai nostri occhi, popolata da pochi oggetti che solo nel corso della rappresentazione acquisteranno significato: un piccolo manichino di legno sulla sinistra, due barattoli di latta sullo sfondo, un grande foglio bianco al centro. Inesistenti, o quasi, dunque, le tracce forniteci per interpretare quello che abbiamo letto essere una «riflessione sul male», che parte da due interrogativi per tentare di compiersi: “perché nasce?” e “come sconfiggerlo?”
Alla seconda domanda, difficile risulta dare una risposta e soggettive più che mai potrebbero essere le soluzioni che ciascuno di noi individuerebbe, se fossimo chiamati a rispondere ad alta voce.
Paventata, suggerita, prova, invece, ad essere la replica al primo quesito, sebbene in fieri, in continua evoluzione debbano essere considerate le teorie che la sottendono e che trovano nel concetto di “menzogna” la possibile giustificazione o quantomeno chiave di lettura.
Ad emblema del maggiore dei mali viene scelto lui, Adolf Hitler, lo sterminatore di sei milioni di ebrei, l’immagine per antonomasia dell’orrore che ha segnato il Novecento, di quel «cancro che ha colpito l’Europa, che è entrato nei cuori e nelle menti e si è trasformato in pensiero, in politica» in adulatori e in vittime. In vendicatori e in sacrificati.
Ma non è (solo) sulla figura del dittatore che si concentra il testo: è alla ricerca dell’origine di tale male che esso è votato; a ripercorrere la Storia a ritroso, fino alla Genesi, alle Sacre Scritture, alla prima lettera della Bibbia, “quando niente ciò che esiste esisteva ma tutto era in potenza di esistere nella mente di Dio”. E ciò per il bisogno di esternare e rispondere ad una ulteriore domanda: “c’è Hitler nel mio cuore?”
Per l’intera durata del monologo, con ossessione Latella ci costringe a chiederci se sia una menzogna la certezza che ormai il Male è stato sconfitto; se sia una menzogna la certezza che la fine materiale, dell’uomo, e ideologica, del suo credo politico, ci protegge da ricorsi storici: il tormento, provocato, di tale dubbio è costante e reso ora con fragore, urla, strazio, ora con la tragicità del silenzio, delle scene vissute con il corpo, i gesti, i suoni monosillabici degli spari, delle granate, dei mitra. Al foglio bianco, quel foglio bianco sullo sfondo, su cui col pennello è stata dipinta la Bet del principio di ogni cosa, il compito di farsi frammento, moltiplicarsi e farsi esistenza, morte, genocidio. Al manichino di legno, inerme, di divenire burattino nelle mani di chi lo muove. Ai recipienti di latta di esplodere e imbiancare, ricoprire, incenerire.
Al centro, il corpo dell’attore, del direttore d’orchestra di sirene antibomba, del dittatore, del Cristo straziato in croce come gli internati nei campi di concentramento: Francesco Manetti. Magistrale, parossistica, intensa, magnetica la sua prova. Conoscitore sofisticato del movimento e del linguaggio corporeo, riempie con forza elegante lo spazio, e pulsante diventa, nella interpretazione di cui si fa mente e strumento, ogni emozione pienamente vissuta e rappresentata, che partendo da ciò che è racconto si ricollega a chi quel racconto lo ascolta e “subisce”, dall’altra parte del palcoscenico, in termini di empatia e di coinvolgimento emotivo, senza tregua.
Sul suo volto, man mano che la storia si compie, il segno della fatica, del dolore, del male subito e inferto diventa sempre più tangibile, e il suo sudore diventa la nostra apprensione, il suo vomitare il nostro ribrezzo nei confronti di quella Storia, il suo nudo il nostro sentirci a nudo, scoperti, dinanzi all’innegabile e indimenticabile, che è anche – parafrasando una affermazione dell’autore e regista – possibile scheggia sopita dentro di noi.
Immensa la scena finale sulle note evocative di Hitler in my heart di Antony and the Johnsons che lascia ad un verso – As I search for a piece of kindness, and I find Hitler in my heart – la infinità di ogni domanda senza unica risposta, su cui meditare è possibile, doveroso, necessario. A teatro così come nella vita.
Ileana Bonadies