Lieve come un soffio, profondo come il mare
Il dialetto messinese per raccontare una storia d’amore alla ricerca di nuove parole per varcare il confine della incomunicabilità. Intervista a Tino Caspanello, autore di “Mari”.
Il silenzio quale metafora di un parlarsi e capirsi pur senza dialoghi.
Il silenzio quale accoglienza e ascolto dell’altro.
È al silenzio, ai suoi significati, alla sua forza che ci introduce lieve, accompagnandoci per mano, lo spettacolo della compagnia Teatro Pubblico Incanto, scritto diretto e interpretato da Tino Caspanello, insieme con Cinzia Muscolino.
Andato in scena nell’ambito della rassegna Il Teatro cerca casa, Mari – questo l’evocativo titolo – è uno spartito musicale, in cui il dialetto messinese parlato dai protagonisti, un uomo e una donna, marito e moglie, funge da melodioso suono, da colona sonora di una storia semplice, piccola, essenziale eppure profonda e ricca di significati. In riva al mare, di notte, mentre il suono dolce delle onde calme bagnano la battigia, un pescatore (il silenzioso eppure eloquente, nella sua forza scenica ed espressiva, Tino Caspanello) è solo con i suoi pensieri, quando alle sue spalle, piedi nudi, corpo esile, appare sua moglie (l’intensa Cinzia Muscolino) che, restandogli sempre alle spalle, senza mai avvicinarsi all’acqua che non intende toccare, inizia a parlargli. A fargli domande, apparentemente semplici nella loro banalità – quanto tempo si tratterrà ancora in spiaggia, gli esiti della pesca, la fame che potrebbe venirgli – eppure viatico per iniziare una esplorazione emotiva di colui che è il suo compagno ma che, in realtà, non ha ancora mai conosciuto del tutto.
Ed è così che lentamente, in una atmosfera sospesa in cui il tempo non ha più lancette, due anime iniziano a risalire la superficie, e dalla materialità che il corpo ha loro dato, passano a divenire soffio, palpito, sguardo, emozione, ricordo, sogno. È proprio la realtà del sogno, del resto, che finora ha consentito loro, come coppia, osservandosi reciprocamente mentre l’uno dorme e l’altro è sveglio, di essere spontanea, di manifestarsi senza controllo alcuno, per la potenza che li contraddistingue, pur senza quella consapevolezza e quel realismo che la dimensione onirica rifugge e che, pertanto, disorienta ora che divine racconto, confessione divertita.
Come le onde che avanzano e si ritirano lasciando il segno del loro passaggio sulla sabbia, allo stesso modo la Muscolino (a cui fa da contraltare la posizione ferma, seduta, di Caspanello) si muove sulla scena, lasciando tracce di luce, spiragli di apertura in quella che è la coltre di buio che le sta di fronte: il mare, scuro, espressione dell’immutabile e sconosciuto insieme, ma anche segno simbolico di confine tra ciò che appare separato e che travalicare, però, diviene necessario. Per aprirsi con nuovi occhi a ciò che sta intorno, a nuovi orizzonti, nuovi stati d’animo, nuove parole con cui comunicare ed entrare in relazione con se stessi e gli altri. Affinché quella incomunicabilità e diffidenza verso un più comunicativo lasciarsi andare, la stessa che condiziona ogni scelta dei nostri protagonisti, si possa trasformare in ricchezza e valore e diventi, come l’immagine ultima con cui si chiude lo spettacolo, quel lieve intreccio di mani che sfiorano il mare, inizio di un nuovo percorso che è dall’affidarsi all’altro che parte per evolversi e che ad ogni spettatore è lasciato, da questo momento in poi, immaginare e costruire.
In esclusiva per QuartaParete abbiamo incontrato il drammaturgo Tino Caspanello, ecco la sua video-intervista in cui ci racconta il suo lavoro di autore, i significati nascosti dei suoi testi, i suoi “maestri”, i suoi futuri progetti:
Irene Bonadies
Il Teatro cerca casa