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Il noto regista emiliano porta in scena al Teatro Bellini di Napoli, sino al 19 gennaio, una versione di Zio Vanja del tutto priva di anima e di spessore che delude ogni aspettativa.

 

Foto Tommaso Le Pera

Foto Tommaso Le Pera

Ha fatto il suo debutto il 14 gennaio scorso, al Teatro Bellini di Napoli, la tanto attesa trasposizione di Zio Vanja realizzata da Marco Bellocchio. Si nutrivano, al riguardo, numerose aspettative, non solo per la prestigiosa firma apposta dal regista emiliano ma anche, e forse soprattutto, per la presenza di un cast d’eccezione capeggiato da due punte di diamante della cinematografia italiana, vale a dire Sergio Rubini e Michele Placido, quest’ultimo anche in veste di produttore dello spettacolo.
Ebbene, la prima considerazione che vien subito da fare, dopo aver assistito alla messa in scena, è che si è trattato di un’occasione mancata. Duole ammetterlo, ma l’esito di quella che sarebbe potuta risultare una sorprendente quanto magica commistione tra visione cinematografica e rappresentazione teatrale è stato a dir poco deludente.
Zio Vanja è una delle opere simbolo del teatro di Čechov, l’espressione forse più alta e compiuta, insieme a Il gabbiano, della drammaturgia dello scrittore russo. In essa prende forma quell’universo angosciante popolato da uomini afflitti, annoiati, abulici, completamente persi nelle proprie sterili illusioni, uomini in perenne lotta contro un tragico destino che ha impedito loro di realizzarsi, di diventare fino in fondo se stessi, esseri inchiodati alla propria incompiutezza, dilacerati come sono tra un passato speso inutilmente e un presente che li atterrisce per la sua assurdità. L’inerzia regna dunque sovrana, ogni gesto si ferma alla pura intenzione, ci si muove a vuoto, completamente storditi e impotenti dinanzi ad uno scenario spettrale, vagheggiando un indefinito futuro che non vedrà mai la luce, e così la vita scivola via veloce come l’acqua tra le mani. Zio Vanja si erge a personaggio-emblema di questo universo, lui che ha votato la sua intera esistenza al genio del professor Serebrjakov, rivelatosi alfine un “tronfio feticcio”, una gloria del tutto inconsistente. Ma ormai è troppo tardi per porvi rimedio, per riavvolgere il nastro del tempo perduto e cambiare marcia.
Di questo multiforme e complesso universo non v’è la minima traccia nello Zio Vanja di Bellocchio, che ne tradisce completamente lo spirito pur rimanendo fedele alla lettera del testo. Le atmosfere tipiche del teatro cechoviano sono del tutto assenti, come assente è la regia, che risulta piatta, inerme, incapace di sorprendere e di appassionare lo spettatore, refrattaria a qualsivoglia slancio creativo, una regia, insomma, che non ha avuto il coraggio di osare spingendosi oltre una messa in scena convenzionale, forse intimorita dalla stessa materia trattata. Anche la scenografia appare priva di inventiva, addirittura statica, costringendo gli stessi interpreti a continui ed estenuanti cambi di scena per conferire un minimo di vivacità e di dinamismo allo svolgersi della vicenda.

Foto di Tommaso Le Pera

Foto di Tommaso Le Pera

La nota di certo più dolente dell’intera pièce, ad ogni modo, è fatta risuonare da un cast di attori inadeguato, poco coeso e per nulla credibile, che in alcuni casi ha dato luogo a prove recitative alquanto imbarazzanti. Lo scavo psicologico proprio dei personaggi cechoviani e il crescendo di pathos cui questi danno luogo nel corso della storia sono così minati sin dalle fondamenta. Certo, i nomi di punta e di maggior richiamo riescono in qualche modo a salvarsi, Placido interpretando un Serebrjakov un po’ guascone e sopra le righe che in più di un’occasione riesce a conquistare la scena, Rubini, dal canto suo, impersonando Zio Vanja in modo elegante e distaccato, restituendo puntualmente la cruda disillusione e l’amarezza che contrassegnano il personaggio. Ma ciò non basta a colmare le evidenti lacune interpretative degli altri attori in scena.  Pier Giorgio Bellocchio, nei panni del medico Astrov, così come Anna Della Rosa, in quelli di Sonja, forzano oltremodo una recitazione dalle tinte monocordi e, per ciò stesso, stucchevoli, mentre la Elena della pur avvenente Lidyia Liberman, con il suo italiano incerto e la voce quasi mai in maschera, risulta ai più incomprensibile. A completare il cast di attori figurano Lucia Ragni, nel ruolo della madre, Bruno Cariello (Telegin), Maria Loveti (la vecchia balia) e Marco Trebian (l’operaio), ma nessuno di loro ha lasciato il segno.

Già si parla della trasposizione cinematografica che Bellocchio realizzerà in estate. Speriamo che almeno lì, in una situazione a lui più congeniale, sappia lanciarsi senza rete in un’impresa davvero rivoluzionaria e all’altezza della sua fama.

 

 

Armando Mascolo

 

 

Teatro Bellini
Via Conte di Ruvo, 14 – Napoli
Contatti: 0815491266 – botteghino@teatrobellini.it
www.teatrobellini.it
Orari: feriali ore 21 – domenica ore 17:30

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