“Mio figlio era come un padre per me”, il parricidio 2.0 in scena a Interno 5
Vincitore nel 2013 del Premio Scenario, è la narrazione di un presente affetto da abulia la cui sola via d’uscita pare quella di un atto risolutivo. Senza dubbio uno tra i migliori spettacoli della stagione.
Si esce con le ossa rotte, vessati e lividi, causa verità scomode in eccesso. Non ci sono altri modi per delineare in maniera sintetica lo stato in cui ci si ritrova dopo essersi sottoposti alla fustigante visione di Mio figlio era come un padre per me, premio Scenario 2013, andato in scena a Interno 5 lo scorso 24 e 25 gennaio. Cosa accadrebbe se provassimo a tirare le somme della crisi economica e valoriale nella quale siamo non casualmente piombati i tempi moderni? A chi ci sentiremmo di attribuire la colpa (oltre che probabilmente a noi stessi)?
Lo spettacolo, scritto e interpretato da Marta e Diego Dalla Via, cala lo spettatore in uno spazio, presumibilmente una casa, dal chiuso della quale due fratelli, tali anche nella vita oltre che sulla scena, gettano un fascio di luce e una buona dose di sterco su ciò che sono questi tempi, su come si è divenuti a viverli, su chi ha permesso che ciò accadesse. Il tempo scorre nel segno dell’abulia pura, quella succedente ad un botto, come recita il testo: “La prima generazione ha lavorato, la seconda ha risparmiato, la terza ha sfondato. Poi noi”.
Non è solo la crisi generazionale, quella dei figli che staranno peggio de genitori, a tessere le fila della rappresentazione, ma è anche una crisi geografica, specifica, quella dell’illuso nord est, ex ridente locomotiva d’Italia, oggi immobile ed impossibilitato a reinventarsi, con la sola apparente possibilità di appigliarsi a due destini metaforici: divorare se stesso come fa il protagonista maschile, teoreta dello spritz che spolpa gli operai dei propri guadagni servendo aperitivi dopo-lavoro (lo spritz ti racconta la vita come una storia nella quale hai vinto tu, recita più o meno così una sua massima); oppure tirando i remi in barca, come fa la protagonista femminile, che vede nella dieta ferrea la più rosea prospettiva futura, imperfettibile. Non manca la prosperità, ma semmai la voglia di cercarla, la speranza di trovarla.
Ciò che si staglia, dunque, dinanzi agli occhi dello spettatore è un brillante e avvilente racconto iconoclasta di una borghesia consumata dalle proprie consuetudini, trasformatesi in giuste non si sa come, non si sa perché. Chiusa in se stessa, nascosta dietro un televisore, inebetita e plagiata da un social network. È la presa di coscienza del fallimento dei nostri predecessori non dal punto di vista della statistica e della cronaca, quanto del fare quotidiano condito di un’ indifferenza che ha di fatto impedito la prevenzione alla cronaca dei suicidi per fallimento e ad un’economia prossima alla stagnazione. Non ha saputo prevenire, né tantomeno curare. L’esemplificazione potrebbe stare nell’elemento scenico più rilevante dello spettacolo, un cartello sul quale campeggia un “fine” evocativo, scritto coi caratteri del “fame” di Saranno Famosi, che potrebbe tranquillamente essere letto nel suo senso british, ovvero come “tutto bene”. Come se i nostri predecessori davanti alla fine avessero chiuso gli occhi, convincendosi che andasse davvero tutto nella direzione giusta. E allora, dove non arriva la prevenzione, sopraggiunge la soluzione estrema dei figli, quella dell’omicidio, un omicidio 2.0 senza spargimenti di sangue, un atto dovuto di sacrificio perché si possa tornare ad essere padroni delle proprie vite, oltre i condizionamenti esterni. “Un gesto che è destinato alla correzione della nostra stirpe, non alla rovina”.
C’è tutto questo e molto di più in uno dei lavori testualmente più interessanti degli ultimi tempi, se non altro per la mortificante capacità di sapersi calare nell’attualità e con “profondità e leggerezza” – come scritto nella motivazione che li ha premiati – raccontarla, attraverso un uso intelligente dell’italiano regionale, con una parabola che spazia dal particolare all’universale, con semplicissimi elementi ad arricchire una scena nata volutamente come povera, scarna, arrangiata.
Andrea Parrè
Interno 5
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