Oltre la maschera
Latella rilegge Goldoni ne “Il servitore di due padroni”. E il pubblico si divide.
Da Carlo Goldoni ad Antonio Latella. Dalla maschera che nasconde e mistifica la realtà, alla distruzione di essa. Dalla pesantezza del cuoio alla trasparenza di un velo di carta che copre il viso, per poi essere mangiato, fagocitato, fatto in mille pezzi.
Il regista stabiese parte dalla celebre commedia dell’autore veneziano e porta in scena al Teatro Bellini di Napoli Il servitore di due padroni avvalendosi dell’adattamento drammaturgico di Ken Ponzio, che nella riscrittura del testo ha inteso farsi contaminare dal presente e dai cambiamenti (di stile, percezione, pensiero) avvenuti, nel corso degli anni, dalla prime stesura (1745). Scopo dichiarato dell’operazione «fare un discorso sulla Tradizione del teatro italiano», partendo da una struttura nota come quella propria della Commedia dell’Arte, conosciuta nelle sue dinamiche, per poi gradualmente allontanarsi da essa e indurre lo spettatore a riflettere su altro: ovvero la contemporaneità e le sue implicazioni.
Per fare ciò Latella sceglie innanzitutto di svestire i personaggi dei loro abiti settecenteschi, lasciando che solo uno, Silvio (Rosario Tedesco), resti espressione di quel tempo che fu, ovvero immagine di quel ceto sociale borghese su cui Goldoni poggiò il suo sguardo critico, e anche della loro lingua, per cui tutti ora parlano in italiano ad eccezione di Pantalone (l’integerrimo Giovanni Franzoni) che continua ad esprimersi in veneziano; quindi cambia gli equilibri tra i personaggi ed ecco che Arlecchino (l’ottimo Roberto Latini), nella versione originale servitore di Beatrice, ne diventa il fratello, cioè quel Federigo Rasponi finora conosciuto defunto in un duello passionale, e ciò per avere il pretesto di approfondire e rendere tangibile quanto solo accennato da Goldoni: il rapporto incestuoso tra i due fratelli. Ancora, rende esplicita con un bacio saffico, anziché tralasciarla frettolosamente, quella tensione erotica intravista tra Beatrice (Federica Fracassi), in abito da uomo, e Clarice (Elisabetta Valgoi); infine, rende atemporale, o all’inverso contaminato all’inverosimile, l’ambiente nel quale la trama si dirama, lasciando che solo alcuni dettagli (vedi la televisione accesa che trasmette senza interruzioni immagini di un disastro incendiario, o ancora la presenza di una aspirapolvere) rimandino ad un tempo attuale. Anche il luogo scenico lascia che non sia identificativo di nulla, che non sia accogliente ma rappresenti uno spazio di passaggio, temporaneo (da qui la scelta di collocare la scena all’interno di un albergo), limitato eppure aperto alle influenze esterne come le porte e le ante dell’ascensore, con il loro continuo aprirsi e chiudersi, ben sanno rendere. A fungere da raccordo tra i vari personaggi con funzione di regista in scena, Brighella (interpretato da un altrettanto bravo e convincente Massimiliano Speziani) che esce ed entra dalla scena attraverso l’espediente del citofono, svolgendo il ruolo del narratore e al contempo quello del personaggio
La menzogna, la falsità, l’alterazione di tutto ciò che si presenta allo sguardo risultando altro sono le direttrici lungo le quali l’opera si muove. Non a caso, a rappresentare la cifra stilistica della commedia è un onnipresente dualismo, che ritroviamo sin dal titolo, e ancora poi nei caratteri di ciascuno dei personaggi: «Non c’è una figura onesta, tutto è falso, è baratto, commercializzazione di anime e sentimenti», spiega Latella nelle sue note, e il denaro è il motore di ogni scelta compiuta, di ogni decisone presa pur se a discapito dell’amore (che riuscirà comunque a trionfare).
Eppure, fintanto che questo inganno sopravvive, assistiamo ad una strutturazione “ordinata”, “lineare” della storia (sebbene sovraccaricata di simboli, azioni, parole attraverso cui bisogna farsi spazio con forza e concentrazione per seguire il filo conduttore e non perdersi tramortiti dall’eccesso), che valorizza anche gli aspetti ilari delle situazioni che si vengono a determinare e di conseguenza dei dialoghi (e il pubblico che riconosce quanto sta avvenendo lo ben recepisce abbandonandosi, talvolta, anche al riso). Nella seconda parte ecco però che il registro cambia totalmente, e una rivoluzione che scardina metaforicamente l’impianto narrativo ed ideologico si materializza. È da questo momento in poi che Latella interviene con maggiore incisività nella destrutturazione del testo, del suo significato più immediato, imponendo ai personaggi e allo svolgimento della vicenda la sua visione. Il suo linguaggio decodificante, che non intende poggiare più su alcuna convenzione/convinzione ma destabilizzare, pungolare, stimolare una interpretazione altra, affinché ciascuno possa attribuire a ciò che vede e ascolta un proprio significato (sempre che l’attenzione non sia andata nel frattempo persa e ogni tentativo di restare agganciato alla storia non si sia irrimediabilmente smarrito). Interessanti in tal senso le due maggiori innovazioni che introduce e che si colgono nella loro pienezza solo dopo essere giunti al termine ed aver visionato il tutto: il costume bianco, privo dei suoi caratteristici rombi colorati, di Arlecchino, che Latella giustamente associa ad una «pagina bianca», su cui gli altri personaggi e gli stessi spettatori si riflettono e scrivono ciò che è la propria versione dei fatti; la scenografia che pezzo dopo pezzo viene smantellata dagli stessi attori, scoprendone i segreti, svelandone i trucchi, diventando al contempo spazio entro cui un disordine folle prende il sopravvento, le anime si (letteralmente) denudano e anche la recitazione, non più chiusa in un canovaccio, insieme ai movimenti del corpo, si fa libera (con relativo lazzo della mosca).
L’ultimo stralcio della rappresentazione ritorna di nuovo a Goldoni come se un cerchio si chiudesse e compiuto un percorso tumultuoso, di negazione e distacco, si ritornasse alla quiete del punto di partenza: questa volta è al solo Truffaldino, però lasciata la scena, mentre tutt’intorno è nel frattempo calato il buio e solo una candela è restata a fare luce.
Applausi titubanti al termine dividono il pubblico tra estimatori e detrattori: il teatro ancora una volta non ha lasciato indifferenti.
Ileana Bonadies
Teatro Bellini
Via Conte di Ruvo, 14 – Napoli
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