Il giardino dei ciliegi
Debutta in prima assoluta al Napoli Teatro Festival Italia 2014 l’opera di Cechov per la regia di Luca de Fusco.
Quando ci si trova di fronte ad un autore come Anton Cechov, dinanzi ad un’opera quale è Il giardino dei ciliegi, non si può fare a meno di fermare per un attimo il proprio moto incessante nel fluire del tempo e dello spazio; non ci si può esimere dal sedersi a pensare.
E questa astrazione dal tempo, quest’aria di impalpabile meditazione si è diffusa nella sala del teatro Mercadante, il quale, l’8 e il 9 giugno, ha ospitato la suddetta messinscena dell’autore russo all’interno della kermesse del Napoli Teatro Festival Italia 2014, per la traduzione di Gianni Garrera e la regia di Luca de Fusco.
Lo spettacolo, coprodotto dallo Stabile di Napoli e dello Stabile di Verona, e curato fin nei dettagli – suggestiva la scenografia di Maurizio Balò, incantevoli gli abiti di Maurizio Millenotti, presente come discreta compagna la musica di Ran Bagno – si è presto caricato, per volontà del regista, di significati universali che hanno trasceso la naturale collocazione russa: l’interpolazione di suoni di lingua partenopea – oltre ad accenti francesi e suoni teutonici – ha permesso di sovrapporre l’aristocrazia russa a quella del Meridione d’Italia, in un pastiche idiomatico riuscito.
I protagonisti in scena, impegnati per più di due ore, appaiono pervasi da una assoluta incapacità di reazione alle pressioni del mondo esterno: Ljuba (Gaia Aprea) è l’aristocratica dall’animo di bimba, avvinta alle sue futili passioni amorose – e il nome Ljubov’ in russo significa amore -, preda di un’indolenza che le impedisce e ogni attività propositiva e di accettare il cambiamento; suo fratello Gaev (Paolo Serra) è il suo corrispettivo maschile, un cinquantunenne verboso e pronto ai lazzi, disposto al gioco sempre e mai al lavoro; il Lopachin magistralmente interpretato da Claudio Di Palma rappresenta appieno la prima generazione borghese della Russia, discendente dai servi della gleba, sempre attiva alla ricerca di un profitto mai goduto, spasmodica nella necessità di trovare un impiego, ma che pure smarrisce un po’ alla volta la sua capacità di essere viva al di fuori di un contesto d’impiego lavorativo.
Animata da un nugolo di altri personaggi, tra cui brilla il maggiordomo Firs – interpretato da Enzo Turrin – la pièce ruota intorno alla rovina di una famiglia di possidenti terrieri russi, che hanno dilapidato un patrimonio in caramelle e champagne a Parigi, cristallizzati in un presente sempre uguale a se stesso, vivendo una vita immota e frivola.
Il bianco che riempie di sé il palcoscenico vuol connotare esattamente questa atmosfera immobile, ghiacciata, in cui ogni azione appare come priva di vita – intesa come movimenti dell’anima – eppur piena di inutili ludiche attività. Non a caso, la prima scena è ambientata nella camera dei bambini in cui Ljuba e Gaev sono cresciuti – o, meglio, dove non sono cresciuti.
Sull’orlo del fallimento e con l’acqua alla gola, l’unica via d’uscita è quella proposta dall’amico-mercante Lopachin: dividere in lotti il giardino dei ciliegi e darlo in fitto ai villeggianti stagionali; in caso contrario, tutto andrà venduto all’asta..
Ma questa umanità ormai corrosa nel proprio nerbo vitale dalle nefande dolcezze del lusso, abituata a sfruttare gli schiavi ed a lodare i componenti d’arredo, a vivere cieca a tutto ciò che sia altro rispetto alle solite fastosità, non ha dubbi nel bollare il consiglio come “una scemenza” e nel rigettarlo perché “è poco poetico”.
Dopo un lungo intermezzo durante il quale l’asettico chiarore mette in luce gli affettati patimenti d’amore delle figlie di Ljuba, i bisogni di danaro di Piscik – un possidente amico della famiglia – malcelati sotto una manierata ironia retorica, l’ideologia del bene futuro ed eccelso issata a modello supremo dal giovane “eterno studente” Trofimov, l’esito della piece si completa in maniera ovvia, ma sorprendente.
Si balla di una gioia automatica e senza vita in scena, in attesa del responso. Ma questa è la danza di chi già non è più. Arrivano voci, arrivano dall’asta Lopachin e Gaev: la casa è stata venduta, il nuovo proprietario è lo stesso Lopachin. Ubriaco, egli racconta con furore del suo acquisto: ora egli è proprietario di quella residenza in cui suo nonno e suo padre sono stati schiavi. Non resta che un addio; tutti andranno via per l’inverno, anche lo stesso nuovo proprietario. Tutti salgono la scala che porta lontano. Tutti si tuffano in una voragine nascosta, il punto di caduta, la fine.
Tutti tranne uno. Il vecchio maggiordomo Firs, malato e solo, assiste all’addio dei suoi padroni, vecchi e nuovi. Non ha la forza per seguirli, è il vecchio mondo che muore con le vecchie cose.
Di tutto ciò che era, “non resta niente”.
L’opera, elementare e difficile, ricca e piana al contempo, è intarsiata da momenti di umorismo amaro, che rendono giustizia all’esigenza farsesca esposta dallo stesso Cechov; eppure è il dramma ad avere la meglio. Il dramma dell’inutilità di ogni comportamento: a nulla vale l’attivismo della borghesia, a nulla giova la puerile indifferenza dell’aristocrazia, a nulla porta la cocciuta e forzata imposizione del bene dell’intellighenzia.
Di tutto ciò che era, “non resta niente”.
Antonio Stornaiuolo