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La storia di un amore (reale o platonico?) che cresce mail dopo mail: “Le ho mai raccontato del vento del Nord” debutta a Galleria Toledo per il NTFI.

Fonte foto ufficio stampa

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Si compone di una struttura semplice Le ho mai raccontato del vento del Nord, lo spettacolo tratto dall’omonimo romanzo di Daniel Glattauer e diretto da Paolo Valerio per la traduzione di Andrea Ciprani, alla sua prima italiana, nei giorni 11 e 12 giugno, a Galleria Toledo, per il NTFI 2014.

Due sconosciuti, Emmi Rothner e Leo Leike, si conoscono accidentalmente via mail per un errore nella digitazione del nome del destinatario di un reclamo e da quel momento – inizialmente per chiarire il disguido, successivamente per una crescente e razionalmente imprevedibile curiosità sorta l’una nei confronti dell’altro – iniziano una epistolare corrispondenza, che sempre più li estranea dal mondo familiare e lavorativo in cui finora erano immersi per trasportarli gradualmente in una dimensione parallela “esente dai difetti e dalle imperfezioni donate dalla vita e dalla convivenza di tutti i giorni” come bene la descrive il regista nelle sue note.

Basata su un plot che non si caratterizza certo per originalità – al cinema esistono almeno due film che ruotano intorno a questo escamotage traducendosi in brillanti commedie dal sapore romantico – la messinscena che vede protagonisti Chiara Caselli e Roberto Citran si propone come una molto fedele rilettura del libro (nonostante brevi tagli) e sulla carta sembrerebbe racchiudere tutti gli elementi vincenti per piacere, incuriosire, coinvolgere emotivamente nei dialoghi, sempre più confidenziali, tra lui e lei; eppure nella resa scenica sembra, invece, perdere gran parte delle sue potenzialità e tradursi nel resoconto didascalico di una storia d’amore nell’era di Internet, senza che alcun guizzo di novità intervenga a fare la differenza.

A indurre a questa valutazione, alcune osservazioni. La prima: se si è letto il testo dell’autore austriaco, sin dalle prime battute si intuisce che pedissequamente si succederanno in scena le pagine che lo compongono per cui il finale risulta già noto e ogni forma di avvincente curiosità – rispetto alla ipotetica frase “Chissà come andrà a finire?” – svanisce. Diversamente, se non si è stati tra i lettori che hanno decretato il grande successo del manoscritto facendolo diventare un caso editoriale (interessante sarebbe approfondire come alcune trame avvincano maggiormente di altre pur se poggiano su elementi molto semplici e si caratterizzano per un linguaggio e un ritmo certamente non banale ma simile al quale se ne trovano molti altri che non hanno altrettanto fortuna) si resta maggiormente coinvolti nella nascita, e nella evoluzione che essa avrà, della storia d’amore ma dopo che l’impianto drammaturgico si palesa nella sua ripetitività – di movimenti, scambi di battute, struttura scenica e coinvolgimenti emotivi ora improntati all’euforia, ora alla consapevolezza amara che quanto è in corso tra l’uomo e la donna non potrà durare per sempre e dalla dimensione virtuale passare a quella reale – ecco che l’attenzione incomincia a scemare e il possibile finale immaginato prima ancora che esso diventi noto, con conseguente calo di interesse rispetto a quello a cui si sta assistendo.

Fonte foto ufficio stampa

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Naturali nel loro recitare (sebbene non si esita a riconoscere una maggiore efficace interpretativa a Citran rispetto alla Caselli che sembra più incerta e dunque sempre al limite del cadere in errore – pericolo che non si verificherà, ma la sola sensazione che possa succedere trasferisce a chi la osserva incertezza e ansia – e con una dizione che talvolta impedisce di cogliere nitidamente le battute), gli attori per tutta la durata dello spettacolo non si guardano mai negli occhi, se non in alcuni passaggi sul finale, e rivolto nel vuoto è il loro sguardo, che non è in grado, però, di trasferire l’idea di essere concentrato sull’immagine sognata e idealizzata dell’altro. A determinare tale sensazione il fatto che sebbene tutto ruoti intorno ad un pc, sullo schermo del quale dovrebbe essere fissato il loro sguardo, che su una pagina bianca che poi si riempie di parole dovrebbe dunque concentrarsi, nella versione scelta dal regista non c’è nessun oggetto, reale o simbolico, che possa fungere da catalizzatore del suddetto sguardo con l’effetto negativo che anziché trasognato questi appaia molto spesso distaccato, indifferente e tale da non suscitare alcuna empatia né con il reale interlocutore di tutti i discorsi pronunciati né con coloro che, seduti in platea, sono consapevoli della funzione di “intrusi” ma sembrano ancor di più sentirne il peso dato che mai implicitamente “catturati” ma sempre tenuti fuori da quanto sta accadendo.

(Comprendiamo bene che a teatro è sufficiente anche un solo elemento per richiamarne di più ampi e generali e che tutto è prevalentemente finzione, ma in questo caso specifico il dubbio che ci si pone nasce dalla considerazione che se si è avvertita l’esigenza di drammatizzare uno scritto che lascia già alla immaginazione di chi lo legge la definizione di tutto il contesto – dal volto dei protagonisti, all’arredamento delle loro case – è perché, crediamo, si vogliono enfatizzare alcuni aspetti, materiali e metaforici, che pertanto non possono mancare o comunque devono essere il più possibile lasciati intuire se si vuole evitare il rischio che l’operazione nel suo complesso si traduca in un audiolibro piuttosto che in una rappresentazione teatrale.)

Fonte foto ufficio stampa

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Non si può non notare, inoltre, la presenza dei microfoni (il cosidetto archetto) a cui a teatro, ancor di più se non si tratta di spazi grandi, si ritiene non si dovrebbe mai fare ricorso, e la scelta di sostituire buona parte delle battute con registrazioni che incidono sulla perdita di quella che è la caratteristica principale del fare teatro: il mettere in scena qualcosa che è ogni volta diverso, mai uguale a quello accaduto la sera precedente e a quello che accadrà la successiva.

Divisa in due parti speculari tra loro la scenografia, composta di due finestre, due divani e un comodino, da un lato, e una scrivania dall’altra: al centro un corridoio, simbolo del luogo reale, quello in cui, scorre e si svolge la vita “vera” e che i due personaggi attraverseranno solo in due occasioni: quando tentano per la prima volta di conoscersi dal vivo (non riuscendoci) e quando, sul finale, lei – nel (unico) momento di maggiore intensità della storia, e in cui la Caselli dà prova di ottima credibilità – denuda le sue reali emozioni mostrandosi in tutta la sua fragilità e spontaneità.

Suggestiva la scena finale in cui il vento del nord che ispira il titolo si alza e con un riuscito effetto ottico scompagina l’ultima mail intercorsa tra Emmi e Leo, disperdendo tutte le parole che leggere e vuote, così come probabilmente è stato sin dall’inizio il sentimento vissuto e rincorso in cerca più di se stessi che non di una persona di cui innamorarsi, si disperdono nell’etere, lo stesso che ha cullato e amplificato un sentimento durato il tempo di un click sulla testiera.

 Ileana Bonadies

Info: http://www.napoliteatrofestival.it/edizione-2014/le-ho-mai-raccontato-del-vento-del-nord/

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