“Scende giù per Toledo”
Raccontare la solitudine e la ricerca dell’amore: con questo intento Arturo Cirillo mette in scena il romanzo di Patroni Griffi vestendo i panni (ancora una volta) di un travestito.
«Perché niente è come uno se lo immagina?»
Sono queste le parole di Rosalinda Sprint al suo arrivo in Inghilterra, verso quelle “bianche scogliere di Dover” tanto sognate, sfuggendo da una Napoli, la sua Napoli, in cui ha trovato solo sofferenza, solitudine, abuso, mancanza d’amore. Sono colme di amarezza, di rimpianto, del desiderio di trovare una felicità possibile e di essere se stessa. Riflesso della parabola discendente di una esistenza, la sua esistenza, contraddistinta da tante frequentazioni, da apparente sfarzo ma in realtà colma di miseria, sia materiale, propria della casa in cui vive, dei vicoli che attraversa, che affettiva, legata alla sua famiglia d’origine, al rapporto con suo padre ma anche agli uomini di cui ha creduto di innamorarsi offrendo il suo corpo e la sua fragilità di travestito in cerca di identità.
Frutto dell’immaginazione di Giuseppe Patroni Griffi che nel 1975 ne scrisse un romanzo – Scende giù per Toledo – con lei protagonista, Rosalinda arriva a teatro, in prima assoluta, portata in scena da Arturo Cirillo che ne cura anche l’adattamento, ed ecco che il palco del Teatro Sannazaro, in occasione del NTFI 2014, si trasforma nella stanza, piccola e tristemente kitsch, in cui la donna vive nel quartiere Montecalvario, tra una lampada a forma di palma e una specchiera ovale così come il letto e il tappeto («Una stanza fatta di isole», la definisce il regista a sottolineare l’animo distaccato da tutto ciò che la circonda, e in cui non si riconosce, di Rosalinda, ma anche l’isola di Utopia, ovvero quella chimera verso cui fa tendere ogni suo passo) mentre il “fuori” resta solo immaginato, descritto dalle parole ma non visibile agli occhi, perché volutamente non necessario, perché volutamente emerga solo l’aspetto intimistico del racconto e il suo essere focalizzato sulla protagonista, i suoi pensieri, i suoi vissuti, il suo punto di vista rispetto all’interazione con ogni altro personaggio con cui si interfaccia e relaziona.
Chi sono? Si tratta di Marlene Dietrich, prostituta, esperta nel mestiere e, per questo, punto di riferimento e dispensatrice di consigli per la mai abbastanza adeguata Rosalinda; della Baronessa, clochard dalle grosse fattezze e abituale compagna della notte trascorsa in strada; e ancora, di Gaetano, un cliente fra tanti, in cui Rosalinda si illude di trovare quell’affetto ricambiato che tanto desidera ma che in realtà si dimostrerà essere soltanto un abbaglio dalla natura violenta e prevaricatrice, e infine, di Gennaro, il cugino, ulteriore artefice di quella brutalità con cui unicamente gli uomini sanno approcciarsi a Rosalinda, usata come un oggetto da buttare via dopo aver soddisfatto i propri istinti carnali.
A dare un volto – o meglio una fattezza – a ciascuno è sempre Cirillo, che usa di volta in volta solo un accessorio per identificare le due donne e distinguerle l’una dall’altra (una collana di perle per la Baronessa, una vestaglia per Marlene) mentre lascia indefinite, non tratteggiate con alcun oggetto identificativo, le figure maschili, quasi a voler evidenziare in questo modo la loro inconsistenza come uomini ed esseri umani. Lo stesso accade quando ricorda il padre, presenza ingombrante nella sua vita, suo acerrimo nemico tanto da volerla uccidere per il suo essere “ricchione”, di cui – dalla descrizione – riusciamo a vedere la pistola così come la bara il giorno del funerale ma null’altro che non sia la sua indole o il suo carattere.
Fanno ulteriormente da corollario, poi, le immagini legate al personaggio del sarto, e a quelle di sua moglie e di suo figlio, ulteriore pretesto per sottolineare la sua “natura diversa” e il suo essere recepita, con disprezzo, dagli altri, ma al contempo occasione per far diventare un paltò dall’importante collo alla Maria Stuarda l’emblema di una eleganza e d una femminilità che si sentono proprie ma che si vorrebbero esternare perché fossero recepite e accettate da tutti. Non a caso, pertanto, il più volte nominato soprabito – la cui cucitura dura il corso dell’intera storia – diviene il filo rosso che tiene insieme la vita a pezzi di Rosalinda, mostrandosi nella sua concretezza solo sul finale, quando la donna si appresta a salpare per una nuova città, in cerca di un destino che si vorrebbe diverso e migliore.
Come deciso da Patroni Griffi in fase di stesura del libro, Cirillo conserva nella trasposizione il passaggio continuo dalla terza alla prima persona, intervallando e distinguendo in questo modo i momenti in cui è il pensiero a parlare e dunque l’aspetto onirico a delinearsi, da quelli in cui è l’azione a prevalere. Spiega a tal proposto il regista: «Da quale tempo e in quale luogo parla Rosalinda? Il tempo e il luogo del ricordo, da cui mi è venuta l’esigenza di usare anche il registrato della voce, come una testimonianza sonora di lei».
E in effetti proprio con una registrazione ha inizio lo spettacolo, mentre altre si succederanno in seguito e avranno a che a fare sempre con una dimensione da sogno, con ciò che Rosalinda chiama «prove generali della morte» che interrompono il fluire del contingente quando esso è particolarmente sofferente (incidente d’auto con Gaetano, morte del padre) consentendo di estraniarsi dal corpo, abbandonarlo come un manichino inerme, per poi rinascere. In un altalenante entrare e uscire dalla vita, dai sentimenti che la attraversano, dagli orrori che la segnano fino a giungere a quella che è forse la morte reale, in cui la stanchezza prende il sopravvento anche se ormai si prospetta un futuro altro: poetica e di forte impatto, in tal senso, dunque, la scena finale quando di Rosalinda resta solo il paltò e una grande valigia a testimoniarne il passaggio, ma nessun corpo ad occuparne lo spazio, solo il vento a soffiare ed enfatizzarne il vuoto e la malinconia.
Non nuovo nei panni di un travestito (eccezionale la sua interpretazione ne Le cinque rose di Jennifer di Annibale Ruccello) Arturo Cirillo veste con grazia i panni di Rosalinda Sprint – aiutato anche da una fisicità che facilità e rende verosimile il cambio di ruolo – e, per quanto attiene la regia, con efficacia, ad esempio, sceglie in alcuni passaggi particolarmente significativi, di frenare il flusso veloce di parole e pensieri così creando delle scene al rallentatore che determinano una atmosfera sospesa e rarefatta, ma se le forti similitudini con il testo ruccelliano, scritto successivamente a quello di Patroni Griffi ma oggetto di studio ed allestimento da parte di Cirillo in un tempo antecedente, lasciano presumere che similare possa essere l’approccio poetico e coinvolgente da parte dell’attore, differente è in realtà l’impostazione generale e di conseguenza l’effetto finale. Quello che infatti si riscontra in Patroni Griffi e che resta inalterato nella messinscena è un linguaggio fortemente realistico, crudo, che nulla risparmia all’immaginazione ma che in alcuni casi non esitiamo a ritenere eccessivo, strabordante, forse fastidioso. Se però, da un lato, sono queste le parole e la cifra che le caratterizza, di altra natura sono le immagini che conservano un lirismo intrinseco e una espressività muta molto ben resa e valorizzata. È il caso della scena successiva a quella del rapporto feroce tra Rosalinda e Gaetano, quando l’acqua in scena si fa elemento purificativo, che lava e cancella, e con eleganza e mestizia racconta nel silenzio più assordante quanto più di mille frasi avrebbero potuto. Ed è il caso ancora del momento in cui, mentre il racconto la vorrebbe a Londra, forse morta, forse “solo” morta dentro, ecco che ritroviamo la nostra protagonista sul letto, nella sua casa napoletana che dipinge le pareti, a cancellare ancora le tracce del passato, immaginando di dare nuovi colori alla propria vita finora in bianco e nero.
Alla luce dell’inevitabile raffronto con uno spettacolo dall’impostazione scenica, drammaturgica e attoriale molto simile, inevitabile a questo punto, però, resta il dubbio se l’attuale messinscena non ne esca penalizzata, risultando privata di quella originalità e di quella novità – di visioni, suggestioni, emozioni – che sempre si ricerca in un lavoro teatrale affinché, al termine, ci si possa sentire arricchiti e partecipi rispetto a ciò che a cui si è assistito e non semplicemente spettatori di qualcosa che fa fatica a lasciare il segno
Ileana Bonadies
Info: http://www.napoliteatrofestival.it/edizione-2014/scende-giu-per-toledo/