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“La merda” scritto da Cristian Ceresoli è il racconto di uno smarrimento: quello di una donna, una società, un Paese. E del loro urlo che annienta.

Foto Guido Harai e Valeria Tomasulo

Foto Guido Harai e Valeria Tomasulo

È una Italia denudata della propria identità, priva di misericordia, quella rappresentata senza filtri a Galleria Toledo, dal 10 al 12 ottobre, nel monologo di Silvia Gallerano, scritto per lei da Cristian Ceresoli, mentre appollaiata su un scranno racconta di sé, divenendo espressione simbolica di un malessere che supera ogni dimensione personale per farsi universale.
È una donna-bambina che scopriremo fragile, insicura, piccola nella statura e nelle certezze che la abitano, che insegue, imitando la figura paterna, un coraggio dall’accezione distruttiva, assecondando l’immagine esteriore che gli altri vorrebbero per lei, quella che ci si presenta sul palco, mentre ancora entriamo in sala e ci accomodiamo, attratti da subito da quella figura illuminata come un quadro caravaggesco, che sommessamente si muove e ci guarda per poi tornare a cantare, sottovoce, uno sbiascicato Inno d’Italia.
È la coscienza che parla al proprio Io e si interroga, lo interroga, scandagliando nel profondo il proprio essere, ripercorrendo i propri ricordi, e il doloroso percorso intrapreso e ancora in itinere alla ricerca di un apparente equilibrio, di un auspicato assestamento, quella voce che ascoltiamo in un serrato dialogo che a noi ammicca portandoci dentro una dimensione privata, soggettiva, che emotivamente, però, diventa anche nostra e costringe noi stessi ad interrogarci.

Scritto nel 2012, tradotto in più lingue e reduce da una tournèe di successo, sia italiana che europea, che ha visto il progetto crescere da studio-lettura iniziale fino al compiuto assetto attuale, il pluripremiato La merda, è attraverso tre  tempi che si dipana – Le Cosce, Il Cazzo, La Fama – ma unica è l’invettiva, l’urlo rabbioso, la sofferenza gridata che li racchiude tutti e con strazio attraversa più luoghi, dal rapporto forte e complice col padre (a cui simbolicamente riconduciamo la Storia italiana, le origini dell’Unità, l’insegnamento esemplare che non è la levatura fisica a determinare quella morale), a quello con l’altro sesso che costringe la protagonista sin da subito, appena quattordicenne, a declinare la parola “amore” con quella di “abitudine”, fino alla realtà mediatica – della TV, delle riviste –  idealizzata ingenuamente come un’ isola nel deserto, un approdo felice tra tragiche frustrazioni, la misura di quel potere che tutto consente rendendo apparentemente liberi e, invece, è solo pantano che ingabbia e illude rendendo difficile, se non impossibile, ogni risalita.

A rendere tali pulsioni, tali angosce, tali stati d’animo – che trovano riverbero non solo nel personaggio femminile che ci sta davanti ma anche nelle figure di contorno (come il già citato padre, la madre, il regista) che, con pochi gesti identificativi e l’uso ogni volta diverso della voce dell’attrice, si presentano sulla scena rappresentando metaforicamente le pretese altrui subite, le ambizioni inculcate, le vertigini sofferte – la descrizione di episodi, estrapolati da una quotidianità grigia fatta di sofferenza, che poco lasciano al non detto, prediligendo un linguaggio diretto, crudo, non edulcorato da eufemismi in cui l’autore dimostra con forza e pregio la sua lucida padronanza della scrittura scenica, dando vita ad un flusso di parole e pensieri che mai si interrompe, in un crescendo di pathos che nell’intensità del suono stesso delle frasi pronunciate trova la sua realizzazione, in un perpetuo passaggio dalla dimensione intima a quella delirante, specchio della distruzione e ricostruzione ogni volta compiuta e riavviata.

E il dolore di sentirsi messi ogni volta alla prova, l’angoscia di dover dimostrare chi si è per emergere dalla massa informe e acquistare ciò che è considerato (verosimilmente dalla maggioranza) valore, il dover resistere per poter salvare se stessi, così come la Resistenza ha salvato l’Italia, esplode in tutta la sua veemenza e drammaticità, e diviene la mano tesa, la richiesta di aiuto, di colei che è noi e il Paese intero, insieme a quei valori smarriti, a quella morale disintegrata a quell’apparenza che ha cancellato l’essere riducendo ciascuno a corpi svuotati, persi, confusi, in cerca di personalità.

Foto Guido Harai e Valeria Tomasulo

Foto Guido Harai e Valeria Tomasulo

Efficacemente potente la mimica facciale della Gallerano che con il volto contorto in espressioni sempre diverse e il corpo piegato in pose che rendono inesorabile la tensione che la agitano, riempie, con la sua intensa e magnetica interpretazione, lo spazio annullando ogni dubbio di staticità che la posizione seduta avrebbe potuto far insorgere, e trasforma in stimoli emotivi ciascuna pausa compiuta che sempre e solo, però, riguarda la parola, ma mai il fisico che non conosce, per l’intera durata dello spettacolo, sosta alcuna che siano gli occhi, le labbra, le mani o la punta dei piedi a muoversi nervosamente esternando con angoscia il tumulto dell’anima esistente.

Ma quanto il sopportare questo dolore, questa pretesa di farcela a tutti i costi, di essere “come vogliono loro” potrà durare? Quanto la paura, la pietà, la gloria potranno dettare ogni scelta, condizionare ogni decisione? E ancora, quanto la soluzione a tutto ciò potrà essere quella trovata dalla protagonista, ovvero ingurgitare, per nascondere, sopprimere ogni cosa rappresenti il suo problema, il suo ostacolo, il suo limite, per rispondere ai dettami della società? La risposta che Ceresoli sceglie di dare è drammatica, senza speranza, o forse riflette esattamente quello che la ciclicità degli eventi storici e sociali fino ad oggi ha lasciato intravedere come esclusiva possibilità senza che realmente nulla dimostrasse di essere capace di fermare o quantomeno rallentare la caduta. E così, proprio nel segno di un cerchio che, apertosi ad inizio rappresentazione, poi si chiude, ecco che sul finire l’Inno di Mameli torna nuovamente a vibrare nel vuoto del palco: “Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò” sono le ultime parole che si ascoltano prima del buio e come un monito, facendoci toccare con mano il baratro a cui siamo prossimi, sembrano spronarci, per l’ultima volta, ad una svolta.

Ileana Bonadies

Galleria Toledo
via Concezione a Montecalvario 34 – Napoli
Info: t.+39 081425037 – galleria.toledo@iol.it – www.galleriatoledo.org
FB: facebook.com / Galleria Toledo

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