Cristicchi: Magazzino 18, il luogo di un’amnesia
Dal 21 al 26 ottobre, a quasi un anno esatto dal debutto a Trieste, il Teatro Bellini di Napoli ospita l’artista romano col suo spettacolo, tanto discusso, sull’esodo giuliano-dalmata.
A fendere il buio della sala è una videoproiezione che ci presenta l’impiegato Persichetti in visita al Porto Vecchio di Trieste. È stato mandato lì dal Ministero per archiviare tutti gli oggetti contenuti nel magazzino n° 18. Ma cos’è il Magazzino 18? Il luogo dove gli esuli giuliano-dalmati hanno lasciato tutte le loro cose, i loro ricordi, un posto dimenticato e dimenticabile, da oltre sessant’anni.
Lo specchio storico entro cui Simone Cristicchi e il giornalista Jan Bernas, entrambi autori dello spettacolo, decidono di muoversi, concerne le vicende accadute subito dopo la firma dell’armistizio con gli Alleati, dell’8 settembre del 1943, in quel pezzo di terra, una volta italiano poi ceduto alla Jugoslavia.
Trattandosi di una pagina di storia poco o mal frequentata dai più, Cristicchi, diretto da Antonio Calenda, capace di una regia molto equilibrata e curatissima in ogni dettaglio, si fa maestro illustrando, non così sommariamente, ma neanche travalicando il labile confine di chi è lì su un palco a porre domande alla platea e non a fornire risposte assolute, ciò che ha preceduto quell’esodo e le foibe. La convivenza in quei luoghi tra popolazioni italiane e slave, le angherie fasciste, antecedenti ed evidenti premesse delle violenze perpetrate poi dalle milizie titine sono raccontate col supporto di immagini e proiezioni, testimonianze più che documentazione critica.
La messinscena, un atto unico, consapevole e giusta scelta registica, si potrebbe idealmente dividere in due parti. Nella prima, la scaletta vede susseguirsi e ripetersi in scena la figura dell’archivista Persichetti-Cristicchi, l’italiano medio, bonaccione, ignorante e indifferente a tutto ciò che accade o è accaduto fuori dal suo seminato, quasi un mediocre alter ego di un pubblico disinformato, quella dello Spirito delle masserizie che vaga entro il magazzino-museo e che assume una funzione, solo in maniera accennata, didattica e la musica, i cui arrangiamenti sono del maestro Valter Sivilotti e con le registrazioni della FVG Mitteleuropea Orchestra.
Nella seconda parte, invece, Persichetti e insieme a lui il pubblico, non più tanto convinto che lo stornello in cui si canta “l’ignoranzità produce gioia e felicità” sia una verità accettabile, subiscono un cambiamento. La conta degli esuli e il numero delle vittime iniziano a fondare in lui una coscienza pensante che comincia a considerare quei luoghi, come l’Istria e la Dalmazia, non soltanto come mete vacanziere da sfogliare su un dépliant di qualche agenzia turistica. E allora decide di non archiviare tutte le pratiche e di rispondere almeno ad una di essa: la richiesta di Federica Biasiol, figlia di Ferdinando, un nome su uno dei tanti fogli sparsi nel magazzino, che chiede indietro gli oggetti “rinunciati” dal padre per il “servizio esodo”.
Intanto anche lo Spirito delle masserizie si trasforma, corpo e voce, interpretando otto vite, otto storie, otto sedie vuote prese da quel deposito e messe lì, una accanto all’altra: Ferdinando, Domenico il postino, Norma Cossetto, seviziata e gettata in una foiba, Geppino Micheletti, integerrimo medico coinvolto nella sventura, forse attentato di Vergarolla, una lettera in sloveno di una bambina che ha perso il padre nel campo di concentramento ad Arbe, Marinella Filippaz, uccisa dal freddo e dagli stenti nel campo profughi di Padriciano, la testimonianza di Sergio Endrigo, nato a Pola, che Cristicchi omaggia intonando 1947 e Giovanna, una suicida, morta impiccata ad un albero di ulivo mentre si domandava “ come si fa a morire di malinconia per una terra che non è più mia?” . Sono proprio questi versi, quelli della canzone Magazzino 18, pezzo edito del cantautore romano a creare sulle tavole di legno del palcoscenico del Bellini il momento di più alta poesia. Cristicchi dà mostrazione di un’acuta sensibilità artistica, nella sua prova di cantante prestato al teatro e di attore prestato alla canzone, con un’esibizione composta, giusta che spinge verso una semplicità ecfrastica immediata e diretta a colpire l’emozione. L’indagine, condotta dentro una ben precisa e determinata cornice storica, è volta ad analizzare lo sgretolamento dell’identità dell’uomo, lo smarrimento del senso di famiglia, di appartenenza, di un passato che coincide con le radici, anche per chi è rimasto in quelle terre, attraverso la polvere delle pagine impolverate di un quaderno, le parole tra due giovani che si giurano per sempre amore, un codice d’inventario apposto tanto ad un armadio quanto ad una scrivania, tutti i mobili ammucchiati in quel deposito della storia che è il magazzino n° 18.
Le polemiche e le accuse di revisionismo che hanno accompagnato la prima, al Teatro Rossetti di Trieste, lo scorso 22 ottobre 2013 e le successive contestazioni vissute sul palco del Teatro Aurora a Scandicci (Firenze), sarebbero potute esser stemperate semplicemente vedendo lo spettacolo e analizzando non a-criticamente la performance. Non è la condanna di un’ideologia, neanche quando si menzionano i circa duemila operai e cantierini monfalconesi comunisti, in parte convogliati verso il campo di concentramento di Goli Otok dal regime di Tito. Lì c’è la denuncia della devianza di un’ideologia che ha prodotto silenzio, violenza e intolleranza. Ed essa non assume nessun colore nella scrittura di Cristicchi-Bernas, a volte anzi ridondante nell’utilità di fruizione della pièce, ma doverosa per evitare ambiguità partitiche. Se si concepisce e si rispetta l’ottica che una qualsivoglia forma d’arte è solo il punto di vista di un’artista e che, per sua natura, non può assolvere alla funzione di esaurire tutti gli interrogativi, ma solo stimolare gli spettatori affinché, nelle loro menti, forse assopite, se ne creino di altri, si sarebbe potuta convogliare l’attenzione sulla centralità del tema: un’umanità violata, decontestualizzata e perciò destrutturata nella sua esistenza, un’umanità disumanizzata che ha portato all’errore e perciò va raccontata, in una facile retorica pacificatrice, che però, a conti fatti, non sembra poi così scontata.
Antonella D’Arco
Teatro Bellini:
Via Conte di Ruvo, 14-80135 – Napoli (NA)
Tel: 081.5491266
Botteghino: botteghino@teatrobellini.it – 081 549 96 88
Orari spettacoli:
Martedì 21 ore 21
Mercoledì 22 ore 17.30
Giovedì 23 ore 21.00
Venerdì 24 ore 21.00
Sabato 25 ore 17.30 -21.00
Domenica 26 ore 17.30