Manlio Boutique

La Compagnia OcchiSulMondo mette in scena a Perugia il disagio di una società animata solo da fatui desideri e dal bisogno di avere a discapito dell’essere.

Foto Daniele Burini

Foto Daniele Burini

Tre uomini, ognuno con una valigia (forse a rappresentare il viaggio, forse il bagaglio che lungo il percorso di vita andrà a riempire giorno dopo giorno), con indosso solo un paio di slip e calzini neri come il buio che li avvolge, ed una figura ombrosa in un angolo che sarà coscienza, presente e futuro dei tre protagonisti: questa la scena su cui si alza il sipario della Sala Cutu di Perugia, domenica 9 novembre, per lo spettacolo IOMIODIO. Non avrò altro dio all’infuori di me (semifinalista nel 2011 al Premio Scenario e nel 2012 spettacolo finalista a E45 Napoli Fringe Festival) della Compagnia OcchiSulMondo – tesa da sempre alla sperimentazione di un’azione espressiva dinamica nella sua semplicità, in cui corpo, spazio vuoto e drammaturgia si fondono – con Daniele Aureli, Amadeo Carlo Capitanelli, Stefano Cristofani, Matteo Svolacchia, video di Luca Farinella, drammaturgia a cura di Daniele Aureli e Massimiliano Burini, regia di Massimiliano Burini.

Il primo ha l’aspetto di un debole, ricurvo su se stesso e intimorito anche dalla sua stessa voce; il secondo, braccia conserte, ha l’aria del cinico; il terzo pieno di sé, borioso. Tre personalità diverse che però potrebbero essere l’una l’evoluzione dell’altra e non a caso, infatti, durante la messa in scena, si andranno ad intrecciare e a completare tra di loro. Tutti girano per il palco ed esprimono desideri (“Vorrei la possibilità di volere”), incertezze (“Cosa resta dopo?”), perplessità (“Non bisogna mai smettere di conoscersi. Ognuno di noi è interessante quindici minuti poi si ripete”), in un’alternarsi di luci basse o mancanti e musica anni Ottanta, quasi a ricordare un passato in cui l’uomo era più sicuro di tutto. Sempre con la valigia in mano che si trasforma di attimo in attimo in camerino, armadio, sedile cui poggiarsi, compagnia da portare con sé per non essere mai soli. Ed è proprio la solitudine a fare da eco all’insicurezza totale che esce dalle parole dei tre uomini che pare brancolino in un buio di paura, dubbio, indecisione. Emozioni in cui si smarrisce l’uomo-emblema nella società odierna, spettatore di una vita che sembra scorrergli davanti e che non riesce a toccare con mano vera.

Foto Daniele Burini

Foto Daniele Burini

Rapporti umani, lavorativi, affettivi sembrano oggi spaventare quest’uomo che, spesso ma non sempre per fortuna, non è in grado di fermarsi e prendere per le mani la propria esistenza plagiandola a suo modo. La subisce, piuttosto, senza essere capace di “aggredirla” e farla sua. Un eremita che vaga per le strade senza sceglierne una, che non rischia, non si decide, non vive. E difatti, ad un certo punto, i tre personaggi si vestono, completo scuro, occhiali da sole, sopracciglio inarcato, si specchiano ma ciò che vedono è solo il riflesso di quello che potrebbero essere, di uno stato che non riescono a raggiungere. “Cosa resta quando tagliano il cordone ombelicale? Cosa resta quando smettiamo di credere? Non serve dire che le cose vanno male. Tutti sanno che le cose vanno male”. Andranno via mesti come accade a volte nella vita reale: voltando la schiena, ripiegati su un passato che è unica certezza in quanto già vissuto e dunque impossibile da cambiare. Scelta più facile? Probabile. Sicuramente meglio che affrontare il mostro che è in ciascuno di noi: “Ce ne stiamo in casa e il nostro mondo diventa più piccolo. Lasciateci tranquilli”. Del resto, tale è la percezione che si avverte assistendo a questo lavoro di teatro contemporaneo in cui Burini asserisce di voler descrivere la visione che la sua compagnia ha «del contemporaneo, della follia dell’uomo sempre più impegnato nell’avere, della completa dimenticanza di ciò che eravamo e di ciò che siamo, della perdita dei valori e della trasformazione del concetto di fede. L’incertezza di ciò che sarà». Durante la messinscena, i tre uomini alternano momenti di lento smarrimento personale (non conosciamo i loro nomi, la loro provenienza, nulla se non  quello che vediamo: la loro fisicità) ad attimi frenetici in cui iniziano una sorta di “rap”, elencando tutto ciò che li riporta ai migliori anni vissuti da giovani senza pretese: canzoni, personaggi televisivi, giochi e quant’altro venga loro in mente, senza mai accennare ad un affetto, ad un amico, ad un familiare, ad una gioia dettata dal contatto umano. Un’eccitazione in crescendo, cui protagonista esclusivo è il mondo materiale, per poi tornare ad abbassare i toni e a barcollare sul filo delle perplessità legate all’oggi e al domani. Da qui, pertanto, la scelta registica, perfettamente efficace, di esaltare l’attesa, lo scorrere del tempo, soffermandosi sulla figura simbolica di chi mai potrà arrivare ad una meta se non sarà lui stesso a trovare il coraggio di prendere una decisione. Vedendo i protagonisti uscire con passo esitante, viene da chiedersi se l’uomo debole e solo della pièce, lasciando il palcoscenico, potrà mai nella realtà, guardando meglio dentro di sé, rialzare la testa e riuscire finalmente ad “essere” fermando quella folle corsa all’avere che nulla gli lascia se non un pugno di mosche in mano.

Lo spettacolo andrà di nuovo in scena al Teatro Tordinona di Roma il 14, 15, 16 novembre e al Teatro Superbudda Espace di Torino il 29 e 30 novembre.

Francesca Cecchini

 

 

Print Friendly

Manlio Boutique